Memoria e Futuro

Dalla parte di Giorgia…na

di Marco Di Salvo 12 Maggio 2025

Il 12 maggio 1977, Giorgiana Masi, studentessa e attivista del Partito Radicale, morì a Roma durante una manifestazione (non autorizzata) contro le restrizioni governative alle libertà civili. Colpita da un proiettile calibro 22 durante gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine sul ponte Garibaldi, la sua morte rimane un simbolo delle contraddizioni tra uso legittimo della forza e repressione di Stato.

Quasi cinquant’anni dopo, quella che era una pupa di poco meno di quattro mesi all’epoca dei fatti, portatrice (quasi) dello stesso nome e della stessa iniziale del cognome si fa paladina di una svolta repressiva firmata dal suo governo degna del Kossiga d’antan, grazie all’approvazione del decreto sicurezza. Il governo Meloni, approfittando anche della distrazione pubblica tra guerre e papi, azzera il dibattito sul confine tra sicurezza pubblica e autoritarismo, riportando in luce interrogativi mai risolti sulla natura del potere statale.

C’è da dire, a beneficio dei governanti di allora, che il contesto del 1977 era segnato da tensioni politiche estreme. Dopo l’uccisione di un agente di polizia durante scontri all’Università Sapienza, il ministro degli Interni Francesco Cossiga vietò tutte le manifestazioni a Roma, definendo i manifestanti “borghesi” contro i “figli dei contadini” in divisa. Il Partito Radicale sfidò il divieto organizzando un sit-in a piazza Navona, ma la protesta degenerò in violenza. Testimoni riferirono di agenti in borghese tra i manifestanti e colpi sparati dalla direzione delle forze dell’ordine, ma l’assassino di Masi non fu mai identificato. Le indagini si chiusero nel 1981 con un’archiviazione per “impossibilità di accertare i responsabili” . Per i radicali, la morte di Masi fu un “omicidio di Stato”, frutto di una strategia repressiva; per Cossiga, invece, una conseguenza della “provocazione” di chi aveva organizzato la protesta. Un altro dei misteri della Prima Repubblica.

Oggi, il decreto sicurezza approvato dal governo Meloni ripropone dinamiche simili in un contesto completamente diverso, dal punto di vista delle tensioni sociali. Criticato anche per l’uso di un decreto-legge senza dibattito parlamentare, il provvedimento amplia i poteri di intervento delle forze dell’ordine, limitando il diritto di manifestazione e criminalizzando forme di dissenso anche pacifico e non violento. Come nel 1977, si invoca l’“emergenza” (quale, quella che verrà tra qualche mese, a fronte del fallimento dell’attività di governo?) per giustificare misure eccezionali, riducendo gli spazi di controllo democratico. Organizzazioni e attivisti denunciano una deriva illiberale, paragonabile al clima repressivo degli anni ’70, quando lo Stato rispondeva alla contestazione con divieti e militarizzazione delle piazze. Certo, mancano (o sono silenziati) coloro che più attivamente si battono in difesa di questi principi, che paiono abbandonati a sé stessi. E manca anche la forza di opporsi, anche pubblicamente e non solo con post sui social alla sfida del governo su un tema essenziale all’interno della più ampia crisi della democrazia.

Come sa anche una matricola di scienze politiche il monopolio statale della forza, teorizzato da Max Weber come elemento costitutivo dello Stato moderno, presuppone che il potere sia esercitato entro i limiti del diritto per garantire sicurezza senza annientare le libertà. Tuttavia, quando questo monopolio travalica i confini legali, trasformandosi in violenza indiscriminata o strumento di controllo politico, si avvicina alla logica della dittatura.

La morte di Giorgiana rappresenta un caso emblematico di come l’uso della forza possa sfociare in abuso se svincolato da responsabilità e diritto. Allo stesso modo, il decreto Meloni, concentrando potere esecutivo e riducendo i contrappesi, rischia di alterare l’equilibrio tra sicurezza e diritti, sostituendo al “recinto giuridico” weberiano una logica emergenziale permanente. Come non manca di ricordare ad ogni piè sospinto il giurista Luigi Ferrajoli, senza limiti costituzionali, la forza statale diventa “selvaggia”, minando le basi del patto sociale.

La vicenda di Giorgiana Masi e quella del decreto sicurezza Meloni, pur distanti decenni, mostrano come la legittimità dello Stato dipenda dalla capacità di bilanciare autorità e libertà. Se nel 1977 l’opacità delle indagini e la militarizzazione delle piazze alimentarono sfiducia nelle istituzioni, oggi l’accelerazione autoritaria del governo rischia di ripetere gli stessi errori, trasformando il monopolio della forza da garanzia di ordine in strumento di oppressione. Come ammoniva Kelsen, senza il diritto come “limite al potere”, lo Stato diventa una Gorgone che pietrifica la democrazia. Ed è un peccato che questa Gorgone faccia di nome Giorgia, quasi Giorgiana.

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