Cosa vi siete persi
Dark Winds (e i suoi fratelli) Vs. Yellowstone
In tempi di ritrovata centralità americana, da Trump a Leone XIV, forse è il caso di parlare dei veri “americani” e di come, da qualche tempo sia cresciuto un filone multimediale di attenzione non retorica alla figura dei nativi. Filone, c’è da sottolinearlo, difficile da vedere dal nostro paese, ancora alle prese con l’ubriacatura dovuta alla fine delle amatissime serie legate al blockbuster Yellowstone.
Negli ultimi anni, la rappresentazione delle comunità native americane nella cultura popolare ha subito una trasformazione radicale, passando da cliché coloniali a narrazioni autentiche guidate da voci indigene. Serie TV come Dark Winds, fumetti come Scalped e, nel nostro piccolo, Saguaro della Bonelli incarnano questo cambiamento, contrapponendosi a opere come Yellowstone, che perpetuano, forse anche al di là delle intenzioni degli autori, una visione superficiale e appropriata dell’identità nativa, sottomessa comunque ai neonativi americani rappresentati dal personaggio di Costner, che difende la tradizione americana, una tradizione da immigrati.
Un esempio plastico di cosa stiamo parlando è la serie AMC (ovviamente inedita in Italia) Dark Winds, basata sui romanzi di Tony Hillerman e prodotta da George R.R. Martin e Robert Redford, segna una pietra miliare. Ambientata negli anni ’70 nella Navajo Nation, segue gli agenti di polizia tribale Joe Leaphorn (Zahn McClarnon) e Jim Chee (Kiowa Gordon) mentre indagano su crimini complessi, intrecciando spiritualità, tradizioni e traumi storici . Ciò che distingue Dark Winds è il suo approccio “autentico”: il 90% del cast e della troupe è di origine nativa, inclusi sceneggiatori e consulenti culturali Navajo come George R. Joe, che ha supervisionato dettagli linguistici, costumi e rituali per evitare stereotipi. La serie evita temi tabù come gli Skinwalker (esseri malvagi della mitologia Navajo), privilegiando un rispetto sacrale per le credenze locali.
In contrasto, Yellowstone (2018) di Taylor Sheridan offre una rappresentazione problematica: personaggi come Monica Dutton incarnano cliché di vittimizzazione, mentre la trama riduce i conflitti storici a mere lotte per il potere, equiparando i diritti tribali all’avidità dei coloni. Come sottolinea la studiosa Cherokee Liza Black, Sheridan ripropone una narrativa coloniale che glorifica la violenza dei colonizzatori, ignorando le radici dello sfruttamento delle terre native.
Un interessante esempio di altro media alle prese con un nuovo protagonismo nativo è il fumetto Scalped (2007-2012) di Jason Aaron, pubblicato da Vertigo (e in Italia in una recente edizione di Panini Comics), esplora le complessità della vita nella riserva Lakota di Prairie Rose attraverso la storia di Dashiell Bad Horse, un agente FBI sotto copertura. Sebbene il protagonista sia criticato come poco sviluppato, la serie brilla nella caratterizzazione di figure come Lincoln Red Crow, capo tribale e boss criminale, simbolo delle contraddizioni tra tradizione e capitalismo. Scalped non indulge nel pietismo: mostra alcolismo, povertà e violenza, ma anche la resilienza di una comunità che lotta per preservare la propria identità nonostante il trauma storico.
L’opera, paragonata a I Soprano per il suo realismo, è però accusata di eccessiva crudezza. Tuttavia, il suo merito sta nel rompere l’immagine romantica del “nobile selvaggio”, mostrando personaggi multidimensionali che sfuggono a categorizzazioni facili.
Meno conosciuto ma che poteva essere significativo, almeno per il mercato italiano, è stata la vicenda di Saguaro, personaggio dei fumetti Sergio Bonelli Editore, che ha avuto l’onore di una serie. Sebbene finita prematuramente al 35° numero, Saguaro rappresenta un tentativo di innovare le figure native in storie d’avventura, seppur all’interno di un formato tradizionale come quello bonelliano. Come Scalped, abbonda una profondità culturale di tutto rispetto, sebbene non premiata ai tempi della sua pubblicazione originale dal meritato successo. Ma certamente un fumetto da riscoprire, magari girando per fiere e mercatini
Questi esempi rivelano un cambio di paradigma: le comunità native non sono più mere soggetti passivi della narrazione, ma autrici attive. In Dark Winds, l’uso della lingua Diné (Navajo) non è un espediente esotico, ma un atto di resistenza linguistica, cruciale per la sopravvivenza culturale. E il successo della serie (giunta alla terza stagione, con una quarta in preparazione) fa bene sperare.
Nonostante i progressi, restano sfide: la pressione di conciliare autenticità e appeal commerciale, il rischio di ridurre le culture native a mere ambientazioni, e la necessità di ampliare la diversità delle storie (dai thriller ai drammi storici). Opere come Reservation Dogs (FX) dimostrano che anche la commedia può essere un veicolo per rappresentazioni genuine, mentre il film Prey reinventa generi come l’horror in chiave indigena.
Il ritorno dei nativi americani alla produzione culturale non è una moda, ma un atto di “riappropriazione narrativa”. Dark Winds, Scalped e persino Saguaro segnano passi verso un futuro in cui le storie indigene sono raccontate dai nativi (dalla loro visuale), per tutti, rompendo secoli di silenzio imposto. Come scrive George R. Joe, consulente Navajo per Dark Winds, “senza la nostra lingua e cultura, gli Dèi non ci riconoscerebbero” : oggi, quella riconoscibilità passa anche attraverso lo schermo e le pagine a fumetti.
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