Memoria e Futuro
Elon e Matteo nella Terra di Nessuno
Il presunto annuncio (ancora non c’è nulla di ufficiale, in realtà) di Elon Musk di fondare un “America Party” indipendente, presentato come una forza capace di superare il bipolarismo statunitense, ripropone un’illusione ricorrente nella politica americana (e non solo): la nascita di un terzo polo autonomo. La storia dimostra però che si tratta di un miraggio strutturale.
Sebbene ci siano stati vari senatori statunitensi eletti come indipendenti o con movimenti creati appositamente per loro, come il caso di Connecticut for (Joe) Lieberman, l’ultimo senatore eletto come rappresentante di un terzo partito consolidato fu nel 1970, quando James L. Buckley vinse il seggio al Senato per lo Stato di New York come membro del Conservative Party. E il Conservative Party è limitato allo Stato di New York; prima di lui, bisogna risalire a Robert La Follette del Wisconsin, eletto con il Progressive Party nel 1940. Allo stesso modo, l’ultima volta nella quale un terzo partito vinse qualche Stato in occasione delle elezioni presidenziali fu ai tempi di George Wallace con l’American Independent Party nel 1968.
Questo ci dice che il cambiamento negli USA avviene, ma sostanzialmente all’interno del sistema bipartitico. L’ascesa al potere di Trump è stata in un certo senso un’acquisizione ostile del GOP, che ha portato al ritiro per John McCain e altri parlamentari repubblicani non allineati con i desiderata del capo supremo.
Di fatto, dal 1968 nessun candidato esterno ai due grandi partiti ha ottenuto grandi elettori, e esperimenti come quelli di Ross Perot nel 1992 (19% dei voti popolari ma zero grandi elettori) o, ancora prima, di una figura come quella di Theodore Roosevelt nel 1912 (27% e solo 8 grandi elettori) fallirono nell’alterare il sistema. Il meccanismo “winner-takes-all” e le barriere legali differenziate in 50 Stati rendono impossibile a un terzo partito radicarsi stabilmente, relegandolo al massimo a ruolo di disturbo tattico. Non a caso, si dice che Musk stesso punterebbe a eleggere solo 10-12 parlamentari per diventare ago della bilancia, non a sovvertire l’intero sistema.
Questa dinamica trova un parallelo nell’illusione italiana dello “spazio di centro”. Come il terzo partito americano, il centro nella Seconda Repubblica viene presentato come area autonoma e mediatrice, ma è in realtà un’entità instabile e nominale. Vari studi politologici rivelano come il sistema politico italiano sia fondamentalmente unidimensionale (destra-sinistra), con partiti percepiti lungo un asse polarizzato. Persino il crollo del bipolarismo dopo il 2011, con l’avvento del tripolarismo (centrodestra, centrosinistra, M5S), non ha creato un centro stabile ma ha frammentato i poli tradizionali. Gli elettori che si autodefiniscono “di centro” spesso rivelano realtà diverse: includono elettori disimpegnati a bassa partecipazione, ex elettori polarizzati in transito tra i poli, o forme di protesta camuffata verso il sistema.
Per tornare alle vicende americane, bene fa a segnalare Nate Silver nella sua newsletter Silver Bulletin che, nonostante il racconto di una situazione disastrata per i partiti tradizionali americani, nei sondaggi, “nel 1994, apice dell’era di Ross Perot, il 71% degli americani dichiarava di affiliarsi a Repubblicani o Democratici già alla prima domanda, e la maggior parte del resto si rivelava ‘orientata’ verso uno dei due grandi partiti quando interrogata più a fondo. Nel 2023, questa percentuale è scesa, ma solo al 65%. Per gli indipendenti è difficile vincere le elezioni quando partono con appena un terzo dei consensi, specie quando molti di quei presunti sostenitori sono IINOs: Independents In Name Only” (in italiano sarebbe una sigla conosciuta per altro ‘ISDN’: Indipendenti Solo Di Nome.)
In entrambi i contesti, l’illusione poggia su una finzione linguistica. Negli USA, i cosiddetti “indipendenti” sono in realtà elettori temporaneamente fluttuanti tra Democratici e Repubblicani, non una base coerente per un terzo polo. In Italia, il “centro” funziona come etichetta comoda per forze prive di radicamento ideologico o territoriale, come dimostra la volatilità elettorale di formazioni come Azione o Italia Viva. La differenza culturale è cruciale: mentre il modello Westminster richiede un capitale sociale e una deferenza istituzionale che in Italia mancano, qui permangono subculture storiche come identità residuali, non come centri autonomi. L’America Party di Musk e il “centro” italiano condividono così un destino analogo: sono terre di nessuno, non spazi di sintesi politica. Oltreoceano, il sistema elettorale e la cultura politica li riducono a strumenti di pressione momentanea. In Italia, l’assenza di una cultura politica centrista e la struttura unidimensionale dello spazio li trasformano in rifugi temporanei per elettori in transizione. La lezione è chiara: gli spazi politici non si creano per decreto né per wishful thinking, ma emergono da fratture sociali profonde e sistemi istituzionali coerenti. Finché queste condizioni mancheranno, terzi partiti e centro resteranno fantasmi nominali in cerca di sostanza.
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