Pierluigi Nicolin ed Emilio Battisti, due figure importanti nel dibattito sulla architettura italiana, scomparse a pochi mesi di distanza l'una dall'altra

L'architettura e noi

In memoria di Emilio Battisti e Pierluigi Nicolin, due maestri dell’architettura che sapevano dibattere

di Cristoforo Bono 31 Maggio 2025

Non sono tempi, questi, di un grande dibattito sull’architettura e sulle sue implicazioni territoriali. Il gusto del confronto si è come sopito – speriamo provvisoriamente – con la scomparsa di due architetti milanesi che l’avevano tenuto vivo: Emilio Battisti e Pierluigi Nicolin. Il primo aveva trasformato il suo studio in un punto di incontro, il secondo è stato il protagonista di diverse riviste di settore.  In ricordo di Emilio Battisti è apparso un articolo notevole di Giancarlo Consonni su Arcipelago Milano al momento della scomparsa.

L’intervento di Consonni, esemplare, suggerisce altre considerazioni.  La prima riguarda il concetto di continuità: si va da Vittorio Gregotti, maestro di Battisti, a sua volta allievo di Rogers, alle nuove “generazioni”.  Queste, nel numero di Arcipelago Milano in questione, sono rappresentate da Coppola e compagni in un pezzo contestuale sull’urbanistica milanese.  Non interessa qui entrare nel merito delle loro argomentazioni.

La seconda riguarda lo stesso pseudoconcetto (definizione crociana) di generazione, subordinato rispetto al concetto di continuità. Certo: ogni generazione ha dato del suo alla progressione, secondo lo svolgersi dei tempi e secondo le situazioni o occasioni.  Quella dei Consonni (che è anche di chi scrive) con la “sperimentazione” nella Facoltà di Architettura, nel 1997, ha aggiunto alla libertà di insegnamento quella di apprendimento: liberando le diverse “scuole” dalla gabbia nominale dei “corsi”, quali Caratteri Distributivi, Composizione, etc. Non cosa da poco.

La terza riflessione riguarda la divisione artificiosa tra architettura e urbanistica. L’urbanistica non è che, in fondo, uno strumento dell’architettura, un modo di renderla compatibile con le esigenze umane di vivibilità totale sul territorio.  Quindi l’urbanistica, più che una disciplina, è un ordine nei confronti della disciplina stessa e, quando serva, all’infuori di essa con relativa autonomia o effettiva nel caso della macro-urbanistica legata ai fatti di struttura.

L’ultima riflessione riguarda l’apertura verso l’evolversi delle scienze e del mondo, cioè l’aspetto conoscitivo spesso antitetico rispetto a certa introversione della cultura degli architetti.   Ora occorre riconoscere che anche l’insegnamento è tornato nei ranghi, anche se resta l’idea di fondo delle “scuole” versus manualistica e professionalismo. Il risultato comunque è un’inconsapevole rappel a l’ordre che oggi ha disperso e frazionato energie.  Mentre sarebbe tempo di configurare per gli architetti (e gli urbanisti) una sorta di “comunità scientifica”, capace di ritrovare, grazie al contraddittorio interno e alla spinta alla partecipazione, una continuità perduta. Quello che è certo è che l’architettura, oggi elitaria, debba diventare materia di tutti, ritrovando una continuità comune, che dovrà sfociare nell’apporto civico di tutti, fuor di disciplina, al farsi della città.  Non affidare quindi l’architettura a qualche gesto eccezionale, ma diffonderla orizzontalmente.

Appare anche chiaro che la partecipazione si avvera con la critica puntuale, intervento per intervento, secondo la logica della città e non quella, oggi non chiara, della normativa.

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