Memoria e Futuro
Fine pena mai
Chissà se le forze dell’ordine che hanno compiuto il suo arresto hanno, come nei casi più eclatanti, festeggiato la cattura di un “pericoloso latitante”. Si, perché Elia Del Grande, 50 anni, è stato “finalmente” fermato a Cadrezzate, nel Varesotto, dopo quasi due settimane di latitanza. L’arresto è avvenuto nello stesso piccolo comune dove, nel gennaio 1998, aveva ucciso i genitori e il fratello, la cosiddetta “strage dei fornai“.
Ma questa, per quanto mi riguarda e a differenza di molti che si sono buttati a pesce sulla storia, rimestando nella vicenda di quasi trent’anni fa, non è una storia di criminalità, ma una storia che esplicita simbolicamente il fallimento del sistema penitenziario italiano. O meglio: il paradosso di un sistema che rieduca i detenuti salvo poi non sapere cosa farsene quando il percorso di recupero riesce davvero.
Del Grande aveva scontato 25 anni di una condanna a 30 (ridotta dall’ergastolo per seminfermità mentale) ed era in libertà vigilata dall’estate 2023. Poi, lo scorso settembre, il Tribunale di Sorveglianza lo aveva ritenuto socialmente pericoloso e disposto il trasferimento in una casa-lavoro, struttura a custodia attenuata. Il 30 ottobre Del Grande è scappato, calandosi con una fune dalle mure della struttura di Castelfranco Emilia.
Ecco, da quando l’ho sentita per me la vera notizia non è stata la fuga, ma la lettera scritta durante la latitanza. “Avevo ripreso in mano la mia vita, ottenendo con sacrificio un lavoro, dando tutto me stesso, avevo ritrovato una compagna, un equilibrio, i pranzi, le cene, le bollette, le regole della società”, ha scritto. Parole di un uomo che aveva fatto esattamente ciò che il sistema gli chiedeva: reinserirsi, lavorare, rispettare le regole.
Poi ha denunciato le case-lavoro come strutture peggiori del carcere, “recipienti di persone con problemi psichiatrici che non trovano posto nelle Rems”. “Mi sono trovato ad avere a che fare ogni giorno con gente con serie patologie psichiatriche, la terapia viene data in dosi massicce”.
Ed è proprio questa lucidità che rivela l’assurdo. Un uomo condannato per un crimine efferato, riconosciuto semiinfermo di mente al momento dei fatti, dopo un quarto di secolo di carcere è capace di scrivere una critica articolata e precisa al sistema penitenziario. Sa distinguere una misura di reinserimento da una detenzione mascherata. Riconosce le proprie responsabilità ma denuncia l’inadeguatezza delle strutture. Meglio di un rapporto di Antigone o di Nessuno Tocchi Caino, Del Grande ci regala con questa lettera un trattato sulla condizione carceraria (e non solo) del nostro paese.
L’articolo 27 della Costituzione stabilisce che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Del Grande incarnava il successo di questo principio: aveva un lavoro, una compagna, rispettava le regole della società civile, con le mancanze e i limiti di chi non è soggetto alla “sorveglianza speciale”. Eppure grazie proprio a questa sorveglianza, il sistema lo ha rispedito in una struttura che, a sue parole, non aveva nulla a che fare con il reinserimento. Sorveglianza che non ha interessato altro soggetti.
Ad esempio quelli che negli anni Novanta, mentre Sarajevo bruciava sotto l’assedio, “bravi padri di famiglia” italiani, partivano per la Bosnia. Non come volontari umanitari, ma come cecchini a cerca di emozioni. Tornavano a casa il lunedì mattina, dopo aver passato il weekend a sparare non a cinghiali o cervi (cosa già di per sé deprecabile), ma a civili inermi che attraversavano le strade. La domenica sera erano già in autostrada, pronti a riprendere la vita normale. Nessuno si è mai chiesto davvero cosa significasse che persone apparentemente “normali”, con moglie e figli, potessero trasformarsi in assassini nel weekend e poi tornare tranquillamente alla quotidianità. Eppure il sistema giudiziario italiano ha sempre saputo distinguere tra chi è davvero pericoloso e chi no, vero?
La biologia ci ricorda una verità sorprendente: le cellule del nostro corpo si rinnovano costantemente. La maggior parte di esse ha meno di dieci anni. In circa quindici anni il nostro organismo si è rigenerato quasi completamente, ad eccezione di alcuni neuroni e poche altre cellule che restano con noi per tutta la vita. Anche Rudolf Steiner, fondatore dell’antroposofia, aveva intuito questa dinamica prima ancora delle conferme scientifiche moderne, sviluppando la teoria dei “settenni” – cicli di sette anni in cui corpo e mente attraversano trasformazioni profonde.
Del Grande ha trascorso oltre venticinque anni in carcere. Biologicamente, il suo corpo si è rinnovato più volte. Ma soprattutto, come dimostra la sua lettera, si è trasformato come persona. Cosa significa davvero recuperare un detenuto? Se dopo un quarto di secolo di reclusione un condannato dimostra di saper vivere in società, trovare un lavoro, mantenere relazioni affettive, cosa dobbiamo fare? Rispedirlo in un ambiente che annulla tutto questo perché un tribunale lo ritiene “socialmente pericoloso”?
Le case-lavoro dovrebbero essere ponti verso la libertà, non contenitori per chi il sistema non sa dove mettere. Se sono diventate, come denuncia Del Grande, depositi per persone con patologie psichiatriche che non trovano posto altrove, allora il problema non è chi fugge, ma chi ha creato questa situazione.
Del Grande è stato arrestato senza opporre resistenza in un’abitazione di sua proprietà. Non ha commesso altri reati durante la latitanza. Non è scappato all’estero. È tornato nel luogo della sua tragedia familiare, come se non potesse allontanarsi davvero dal peso della propria storia.
Ora il sistema ha un’opportunità: ascoltare davvero quella lettera. Non come il delirio di un fuggitivo, ma come la testimonianza di qualcuno che il percorso di rieducazione lo ha compiuto, forse meglio di quanto il sistema stesso sappia riconoscere.
L’augurio è che venga collocato in un contesto che rispetti la sua condizione di detenuto in via di recupero, non in una struttura inadeguata che vanifica decenni di percorso. Altrimenti l’articolo 27 della Costituzione resta, come altre di quello che dovrebbe essere la base della nostra esistenza come nazione, una bella frase sulla carta, tradita nella pratica da un sistema che non sa gestire neanche i propri successi.
Perché il vero fallimento non è quando un detenuto non si recupera. È quando si recupera, e il sistema non se ne accorge.
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