
Memoria e Futuro
I cognomi importanti
Vi direte, alla fine della lettura di questo pezzo, “ma questo c’ha tempo da perdere in queste stroπ%@tə?”, poi proprio in questi giorni. Scusatemi, ma sono figlio di Palombella Rossa e della sfuriata di Nanni Moretti su “le parole sono importanti“.
Ma immaginate per un attimo di entrare in un bar e di sentirvi chiamare per nome da uno sconosciuto che vi offre un caffè, dicendo: “Ehi, tu! Quello con la faccia! Vuoi un caffè?”. Probabilmente vi sentireste un po’ spaesati, giusto? Eppure, sui social network, questo è esattamente il trattamento riservato a persone note, che si tratti di vittime di violenze o femminicidi, fino ai Vip protagonisti di eventi o appena scomparsi, come nel caso del papa: una confidenza imbarazzante, come se stessimo parlando del nuovo cucciolo di casa, non di esseri umani con un cognome, una storia e (udite udite) una dignità.
In un mondo dove i cognomi sono diventati più invisibili delle istruzioni contenute nei prodotti elettronici, i social hanno inaugurato la moda della “prima nomificazione”: chiamare le persone solo per nome, come fossero amici di infanzia o personaggi di una soap opera.
Quante volte un vostro interlocutore, uno di quelli che non leggerebbe un libro o un giornale neanche sotto tortura ma ha un accentuato ingobbimento da lettura su smartphone, vi ha detto: “Hai visto cosa ha fatto Chiara?”. Chiara chi? Quella che vende le uova al mercato? No, parliamo di Chiara Ferragni, ma tanto ormai è solo “Chiara”, come se avesse rinunciato al cognome per un errore di battitura.
E quando si tratta di vittime di violenza? Li sono i media che si scatenano, autorizzando tutti a comportarsi di conseguenza “Martina uccisa dal compagno”. Martina. Un nome, un destino, un titolo da giornale di quart’ordine. Nessun cognome, nessun riferimento alla sua professione, alle sue passioni, al fatto che fosse una persona, non un hashtag. Perché sprecare caratteri quando puoi ridurre una vita a un nome da cartolina?
Nota curiosa: questa sindrome da “nome proprio” colpisce soprattutto le donne. Gli uomini, invece, vengono spesso citati con l’intero nome e cognome, magari con tanto di titolo onorifico. “L’architetto Mario Rossi ha vinto il premio…”. Mentre le donne? “Laura ha subito un femminicidio”. Laura. Come se il suo cognome fosse un segreto di stato. Chissà, forse c’è un accordo globale per cui i cognomi femminili occupano troppo spazio nel cloud.
Siamo tutti d’accordo: i social, si sa, amano semplificare. Perché perdere tempo a scrivere “Maria Bianchi, insegnante e madre di due figli”, quando puoi limitarti a “Maria”? Tanto, dopo una settimana, il trend sarà passato, e nessuno ricorderà comunque il suo cognome. È come se, nel tentativo di rendere le notizie più “digestibili”, le piattaforme avessero deciso di trasformare le persone in personaggi di un reality: nomignoli, drammi, e via al prossimo episodio.
Chiamare le persone per nome e cognome non è una formalità da notai, ma un atto di rispetto. Soprattutto quando si parla di vittime di violenze, ridurre una vita a un nome è come servire un buon vino in un bicchiere di plastica: si perde il senso della cosa. Quindi, cari social-addicted, la prossima volta che condividete una notizia, ricordate: i cognomi non mordono. Sono importanti.
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