Memoria e Futuro

Il boss è solo

di Marco Di Salvo 27 Maggio 2025

C’è un momento in cui cambia l’aria, a volte si coglie sull’istante, a volte lo colgono solo gli storici rivedendo le vicende passate con la lente dell’approfondimento di documenti ed eventi sottovalutati dai contemporanei.

Perché spesso i contemporanei vengono distratti dalla propaganda e non riescono ad analizzare con la giusta distanza le cose che gli accadono intorno; e una delle cose di cui più raramente i contemporanei si accorgono è la solitudine dei leader.

Questa è una condizione paradossale che accomuna figure apparentemente opposte (almeno formalmente) come tiranni, leader più o meno populisti e boss latitanti. Pur esercitando un potere quasi assoluto o sfuggendo alla giustizia, questi individui finiscono per vivere in un isolamento esistenziale e operativo, spesso alimentato dalla diffidenza, dalla paranoia e dalla necessità di autopreservazione. Esempi emblematici sono Vladimir Putin, Bernardo Provenzano, Benjamin Netanyahu e Donald Trump, le cui vicende rivelano dinamiche simili di solitudine imposta o autoinflitta.

Putin ha da tempo incarnato la solitudine del potere autocratico, sia nella sfera personale che in quella geopolitica. C’è l’immagine famosa di quando, durante il Natale ortodosso del 2023, è stato fotografato mentre partecipava da solo alla funzione religiosa nel Cremlino, un’immagine simbolica della sua distanza dalla società. Questa solitudine rituale riflette una più ampia strategia ideologica: Vladislav Surkov, ideologo del putinismo, ha teorizzato la “solitudine geopolitica” della Russia, descrivendola come un’entità destinata a isolarsi dall’Occidente dopo le sanzioni del 2014. Putin, dunque, non è solo un uomo solo al comando, ma il volto di una nazione che ha abbracciato un destino di autarchia, rinunciando al dialogo internazionale per preservare un’identità percepita come incompatibile con i valori occidentali.

Altro esempio di solitudine Bernardo Provenzano, capo di Cosa Nostra catturato nel 2006, che rappresenta invece la solitudine fisica e operativa del latitante. Visse per anni come un eremita, nascosto nelle campagne siciliane, nutrendosi di ricotta e cicoria, e comunicando tramite pizzini nascosti nella Bibbia. La sua esistenza era un equilibrio tra controllo e invisibilità: pur gestendo un impero criminale, doveva evitare contatti diretti, affidandosi a intermediari. Questa solitudine non era solo una necessità pratica, ma anche una forma di mistica mafiosa, che lo elevava a simbolo di resistenza allo Stato, alimentando il mito del “boss incorruttibile” .

Diversa la vicenda degli ultimi due, leader formalmente democratici di paesi occidentali. Per Netanyahu la leadership, un tempo definita “Mr. Security”, è oggi minata da critiche, proteste e un crescente distacco dagli alleati tradizionali.

Netanyahu si aggrappa al potere, ma il suo destino appare incerto. L’accumulo di pressioni interne ed esterne, che per un leader normale potrebbe costringere a elezioni anticipate, dove i sondaggi prevedono una sconfitta per la sua coalizione non sono ad oggi sufficenti a minare la resilienza del suo governo, che dipende dalla capacità di mantenere uniti gli alleati estremisti e dalla percezione di una minaccia esistenziale continua. La solitudine di Netanyahu riflette non solo errori tattici, ma un più ampio fallimento nel conciliare sicurezza e diplomazia.

Donald Trump, pur non essendo un latitante, incarna una solitudine legata all’iper-individualismo. Durante le sue presidenze, ha coltivato un’immagine di autosufficienza, attaccando istituzioni e media come “nemici del popolo”. Come sottolinea The Atlantic, il trumpismo ha esacerbato una cultura dell’isolamento, dove la ricerca del potere personale sostituisce la solidarietà collettiva . La sua retorica, basata sull’autocelebrazione e la vendetta, riflette una solitudine esistenziale: pur circondato da sostenitori, Trump appare incapace di costruire relazioni autentiche, riducendo tutto a transazioni utilitaristiche. E lo so vede in queste settimane nel fallimento dei rapporti internazionali.

Che si tratti di un tiranno, di un boss o di un leader populista, la solitudine emerge come conseguenza inevitabile del potere assoluto. Per Putin è uno strumento di controllo geopolitico; per Provenzano e Netanyahu, una condizione necessaria alla sopravvivenza; per Trump, l’esito di un individualismo tossico. In tutti i casi, l’isolamento non è solo fisico, ma psicologico e simbolico: un prezzo pagato per mantenere il potere, che però finisce per erodere legami umani e prospettive collettive. Come scriveva Surkov, la solitudine diventa così un “destino storico”, ma anche una trappola senza via d’uscita.

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