
Memoria e Futuro
Il bue e l’asino
La Francia sta in queste settimane (ma si potrebbe dire tranquillamente in questi anni) vivendo una delle sue crisi politiche più profonde, una crisi che non si limita a segnare l’instabilità dell’esecutivo, ma che sembra riflettere dinamiche ben note agli osservatori italiani che, come prevedibile, se ne compiacciono in articoli ed editoriali in cui sfotticchiano i cugini transalpini.
I segnali di una futura caduta del governo guidato da François Bayrou sono ormai chiari: il voto di fiducia convocato per l’8 settembre si preannuncia come un banco di prova decisivo, con le opposizioni compatte nel rifiutare la rinascita di un’esecutivo incapace di conquistare una maggioranza solida. L’assemblea nazionale, frazionata in modo quasi ingovernabile, conta undici gruppi parlamentari senza nessuno in grado di dominare chiaramente, e questo frammenta il dibattito politico fino al blocco quasi totale dei processi decisionali. Una roba che il proporzionale dei tempi della cosiddetta Prima Repubblica era un esempio di stabilità.
Il rischio evidente è una crisi istituzionale pesante, con possibile spostamento verso elezioni anticipate, scenario classico della cosiddetta “instabilità italiana”. Ma se per la Francia questa dinamica costituisce uno shock, in Italia rappresenta ormai una condizione quasi strutturale, radicata nella storia politica degli ultimi decenni. Qui la crisi del governo, le turbolenze parlamentari e i cambi di maggioranza frequenti sono stati un dato di fatto quotidiano. E, se oggi ci vantiamo di avere uno dei governi più stabili del continente è perché, di fatto, questo è l’unico pregio oggettivo dell’attuale esecutivo. Perché a risultati, siamo scarsini, per usare un eufemismo.
Anche nel contesto francese emerge una caratteristica “italiana”: la difficoltà estrema di costruire un consenso politico stabile in un sistema frammentato e polarizzato, ma soprattutto un sistema istituzionale che, nonostante le apparenze di una repubblica presidenziale forte, mostra limiti evidenti nella gestione delle crisi. Mentre in teoria il modello francese permette al presidente di nominare un premier e guidare con decisione, nella pratica si assiste a un continuo scontro parlamentare che blocca le riforme.
Da qui nasce una riflessione aspra ma realista. Se si guarda all’Italia, il confronto non può che essere impietoso con la Francia. Mentre Parigi sembra combattere un’infezione interna, logorata da tensioni e contraddizioni, l’Italia vive già in uno stato che può essere paragonato non a un’infezione, ma a una condizione terminale: un coma profondo che precede la morte politica. Non si tratta più di un paese in lotta per ritrovare stabilità, ma di un corpo che ha perso da tempo il potere di reazione, rassegnato a una condizione di stagnazione cronica e di crisi sistemica.
La narrazione italiana, dunque, non è quella di una battaglia aspra e vivace come quella francese, ma di una quiete inquietante segnata da polemiche quotidiane basate sul nulla, il segno di una crisi non più episodica, ma esistenziale. Qui la politica è un meccanismo inceppato, incapace di far fronte alle sfide tanto strutturali quanto contingenti, dall’economia alla governance, passando per la rappresentanza e la fiducia dei cittadini.
Non è più tempo, per gli osservatori italiani (soprattutto per chi fa questo per mestiere), di fare gli spiritosi o i superiori su come “i francesi non sappiano gestire la politica”. L’Italia è già un passo avanti — in un cammino oscuro — e la loro emergenza è la nostra consuetudine. Una consuetudine che mette in guardia sul futuro della democrazia così come è oggi concepita.
Di fatto, la Francia si trova davanti a un bivio che noi abbiamo già da tempo superato, per così dire, con tutto il corollario di instabilità, cambi di governo, governi tecnici e difficoltà di governabilità che ne sono conseguite. Parigi, con tutti i suoi problemi, lotta ancora con una vitalità politica che in Italia si è spenta da tempo. Ma come vuoi che ci se ne renda conto, stesi in un letto di terapia intensiva?
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