Memoria e Futuro
Il pallone italiano si è sgonfiato
Per quanto ci provino ostinatamente, né i quotidiani sportivi né i network pressoché totalmente dedicati allo sport preferito degli italiani riescono più ad entusiasmare i tifosi. Saranno le campagne acquisti al risparmio, sarà la sensazione di decadenza complessiva, ma non ricordo una prima giornata di campionato più moscia di quella che si concluderà oggi in serata. Quali i motivi di questa crisi?
Senza voler rifare la storia, è certo che il calcio italiano, un tempo dominatore incontrastato delle scene europee, naviga da anni in acque tumultuose. La crisi che attanaglia il sistema non è meramente sportiva, ma profondamente radicata in una governance finanziaria opaca e insostenibile. I club sono stati negli ultimi anni spesso appesantiti da debiti mastodontici, gestioni avventate e strutture obsolete, un cocktail letale che ne ha minato la competitività e la sopravvivenza stessa.
In questo scenario di fragilità, l’arrivo di fondi e investitori stranieri è stato spesso dipinto come una manna dal cielo, un segnale di fiducia e un’opportunità di rilancio. Tuttavia, dietro acquisizioni apparentemente glamour si nasconde frequentemente una realtà molto più cinica e meno romantica di un semplice amore per i colori sociali.
L’idea che questi acquirenti siano mossi principalmente da grandi piani di investimento immobiliare – come la costruzione di nuovi stadi – è spesso una narrativa comoda (e spinta dagli stessi protagonisti) ma superficiale. Il vero motore di molte di queste operazioni è più prosaico e lucido: l’acquisizione di una società calcistica italiana, con il suo prestigioso nome e la sua storia, può rappresentare una formidabile “lavatrice” di debiti.
Ecco come funziona il meccanismo (che chi vuole può approfondire leggendo, al posto dei quotidiani, questa rubrica). Un fondo specializzato individua un club in forte difficoltà, il cui valore di mercato è precipitato proprio a causa dei suoi debiti. Acquistandolo a prezzo stracciato, il nuovo proprietario non si assume semplicemente un passivo; sta acquisendo uno “strumento” finanziario. Attraverso complesse operazioni di restructuring, quei debiti possono essere rinegoziati, diluiti nel tempo, o addirittura “ripuliti” attraverso la creazione di holding o società veicolo. E essere utilizzato anche per pulire magagne compiute in altri settori di investimento.
Il club, con il suo flusso di ricavi garantito (diritti TV, sponsorizzazioni, biglietti), diventa un veicolo per generare cassa e ripagare gradualmente quei debiti a sé stessi, il tutto mentre l’immagine del nuovo proprietario esce abbellita come quella del salvatore. Nella migliore delle ipotesi, l’obiettivo non è costruire un progetto vincente nel lungo termine, ma mettere in ordine i conti e rivendere il pacchetto a un prezzo maggiorato una volta “ripulito”, realizzando un capital gain.
Questa pratica trasforma il club da entità sportiva a mero asset finanziario, un foglio di Excel su cui operare. Il risultato è quello che vediamo oggi, l’alienazione del tessuto connettivo del calcio: i legami con il territorio, la passione dei tifosi e la pianificazione sportiva a lungo termine diventano variabili secondarie. Il focus si sposta dal campo ai bilanci, in un’ottica di breve periodo che, mentre forse salva la società dal fallimento immediato, non ne garantisce affatto un futuro solido e competitivo. Gli ultimi anni hanno dimostrato come alcuni di questi “salvatori” hanno di fatto ucciso le squadre che avevano acquisito, vedi vicenda Spal, solo per fare un esempio. Nel frattempo il pallone rotola verso il baratro, allegramente, tra nuovi tornei internazionali e vecchi trucchi finanziari.
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