Memoria e Futuro
Il rumore di fondo
Il conflitto israelo-palestinese (e i suoi addentellati di crisi in tutto il Medio Oriente) ha trovato sui social media un terreno di scontro parallelo, dove la realtà della guerra si dissolve in una battaglia di citazioni giuridiche e proclami ideologici. Dalla vicenda Albanese ai bombardamenti israeliani in Siria, Facebook e TikTok sono diventati le arene principali di questa disputa digitale, rivelando non solo divisioni politiche ma anche profonde fratture generazionali nell’approccio al conflitto.
Su Facebook, territorio prevalentemente abitato da utenti over 35 (molto over, in alcuni casi), domina un dibattito che si ammanta di legalità internazionale. Qui proliferano le condivisioni di lunghi post infarciti di riferimenti al diritto internazionale umanitario, alle convenzioni di Ginevra, alle risoluzioni ONU. Gli utenti si trasformano in megafoni di esperti di giurisprudenza internazionale, citando articoli e paragrafi come se fossero incantesimi capaci di fermare le bombe. La piattaforma di Zuckerberg ospita discussioni che assumono i toni di un tribunale improvvisato, dove ogni azione militare viene sezionata attraverso la lente del diritto, come se la guerra fosse un processo da camera di consiglio. Alla fine, ognuno resta della propria opinione, solo con un po’ di rancore in più e qualche “amico” in meno nella piattaforma.
TikTok racconta invece una storia diversa. La generazione Z, nativa digitale, ha trasformato il conflitto in una narrazione per immagini, dove i video di 60 secondi condensano decenni di storia in clip emozionali. Qui il diritto internazionale cede il passo all’immediatezza dell’immagine, alla forza dello storytelling visivo. I giovani tiktoker non citano trattati ma mostrano volti, raccontano storie personali, creano empatia attraverso la narrazione. Il linguaggio è diretto, viscerale, privo delle sovrastrutture giuridiche che caratterizzano Facebook. Le argomentazioni giuridiche, seppur tecnicamente ineccepibili, sono ridotte a hashtag (#WarCrimes, #Genocide) che ignorano un paradosso fondamentale: la discussione online elude la complessità, preferendo semplificazioni manichee.
Di fatto le piattaforme social, amplificano la sterilità del dibattito attraverso algoritmi che censurano o distorcono le voci dissenzienti da quelle maggioritarie, israeliane o palestinesi che siano. TikTok diventa un campo di battaglia narrativo: l’hashtag #StandWithPalestine totalizza 2,9 miliardi di visualizzazioni contro i 200 milioni di #StandWithIsrael, ma questa asimmetria di consenso digitale non si traduce in pressione politica effettiva. La “Generazione Z” resta confinata in una battaglia di simulacri (quanto manca a questo dibattito Jean Baudrillard), mentre la diplomazia reale ristagna.
Questa frattura generazionale rivela l’inadeguatezza di entrambi gli approcci di fronte alla brutalità del conflitto. Mentre su Facebook si discute di proporzionalità e legittimità dell’uso della forza, le bombe continuano a cadere. I riferimenti al diritto internazionale diventano esercizi retorici sterili quando la realtà sul campo è governata dalla logica della sopravvivenza e della vendetta. Armeggiare col fioretto del diritto in una situazione di guerra totale è come tentare di spegnere un incendio con un bicchier d’acqua. Più che inefficace, è stupido.
TikTok, dal canto suo, riduce la complessità geopolitica a slogan e immagini d’impatto, creando una comprensione superficiale ma emotivamente coinvolgente. La guerra diventa contenuto, la sofferenza si trasforma in viralità.
Il paradosso è evidente: mentre sui social si combatte a colpi di articoli di legge e video virali, la realtà del conflitto procede secondo logiche che sfuggono alle categorizzazioni giuridiche e alle narrazioni social. La guerra non si ferma davanti ai commenti, non risponde alle citazioni normative, non si piega alle campagne di sensibilizzazione. I social media, anziché favorire la comprensione, hanno creato echo chamber dove le posizioni si radicalizzano e il confronto si sterilizza in battaglie di principio che non toccano la sostanza del dramma umano in corso. E tutti fanno propaganda, peggio ancora se inconsapevolmente. Per questo, in tempo di guerra, è meglio il silenzio. Tutto il resto è solo rumore di fondo.
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