Memoria e Futuro

Lo stivale nero

di Marco Di Salvo 7 Maggio 2025

Chissà se Mirko Tremaglia, ovunque egli sia, vedendo il voto al primo turno alle elezioni in Romania di qualche giorno fa si sia messo a sorridere. E già, perché fu lui, tantissimi anni fa, a essere il primo promotore di una legge per il voto degli italiani all’estero e sicuramente, visti i risultati rumeni dello scorso fine settimana, avrà avuto conferma del suo intuito. Perché la motivazione che spingeva l’allora parlamentare di Alleanza Nazionale a promuovere una legge per gli italiani all’estero era quella di far leva sulla nostalgia nei confronti del paese di emigranti e figli di emigranti per poter ottenere qualche voto in più per la sua formazione politica, puntando sull’aspetto nostalgico della politica vista da migliaia di chilometri di distanza.

C’è da dire che la storia del  voto per i parlamentari italiani all’estero è stata piena di vicende poco chiare anche perché in sé stesso il voto degli elettori residenti all’estero è un tema complesso, che interseca diritti democratici, identità nazionale e dinamiche geopolitiche. Negli ultimi anni, il dibattito si è intensificato, soprattutto in Italia, dove una proposta di riforma “anti-truffa” mira a limitare il voto postale, consentendolo solo presso ambasciate e consolati. Questa iniziativa, promossa paradossalmente dal centrodestra, nasce da presunte irregolarità nelle precedenti consultazioni, con accuse di frodi legate alla gestione delle schede. Tuttavia, critici sostengono che tali restrizioni rischino di escludere migliaia di cittadini, specialmente chi vive in aree remote o con difficoltà logistiche, minando un diritto fondamentale e alterando gli equilibri politici, dato il peso storico degli eletti all’estero nelle alleanze parlamentari.

Le recenti elezioni presidenziali in Romania (maggio 2025) offrono un esempio emblematico di come il voto all’estero possa influenzare gli esiti politici. Dopo l’annullamento delle elezioni del 2024 per interferenze russe, e nonostante la diaspora romena, tradizionalmente più moderata e pro-Ue, abbia registrato un’affluenza record (oltre 250.000 voti), i residenti in patria hanno mostrato una crescente preferenza per Simion, simbolo di protesta contro l’establishment e l’austerità economica. Questo contrasto evidenzia una frattura: mentre gli elettori all’estero tendono a sostenere la stabilità euro-atlantica, i residenti, afflitti da inflazione e deficit, si rivolgono a opzioni radicali. Tuttavia, alcuni analisti sottolineano che parte del voto estero potrebbe aver comunque favorito candidati nazionalisti, riflettendo un malcontento trasversale. Questo è avvenuto soprattutto in Italia, dove evidentemente i romeni della diaspora sono sottoposti ad una “comunicazione politica” più vicina alle istanze della destra, anche di casa loro, rischiando così di pesare in maniera significativa sul risultato finale al ballottaggio. A guardare le cartine sulla distribuzione del voto dei romeni della diaspora, spiccava una chiazza nera a forma di stivale (forse anche questa in onore di Tremaglia), mentre quasi in tutto il resto d’Europa la maggioranza degli immigrati di origine romena mantenevano una predilezione per i candidati pro UE. Visto il peso della comunità romena in Italia sul totale dei fuoriusciti, l’intero dato dei votanti all’estero si è significativamente spostato a favore del candidato di estrema destra.

La questione del voto dei residenti all’estero comunque di per sé solleva un dilemma fondamentale: è giusto che chi vive fuori dal paese di nascita influenzi la politica di un Paese in cui non risiede? E viceversa, dovrebbero gli immigrati acquisire diritto di voto nei Paesi ospitanti? In Italia, la proposta di limitare il voto postale riflette una sfiducia verso i meccanismi di rappresentanza transnazionali, ma rischia di marginalizzare comunità già lontane. Allo stesso tempo, la Romania dimostra che il voto della diaspora può essere cruciale per contrastare derive autoritarie (o per favorirle), come nel caso delle mobilitazioni pro-Europa contro l’estrema destra (avvenute anche queste in tutti i paesi europei tranne che in Italia).

Tuttavia, se è vero che il principio democratico si basa sulla partecipazione di chi subisce le conseguenze delle decisioni politiche, allora forse è opportuno ripensare i modelli. Limitare il voto all’estero potrebbe spingere verso una maggiore integrazione degli immigrati nei sistemi elettorali dei Paesi di residenza, garantendo loro diritti pari ai cittadini locali. Ad esempio, in molti Stati europei, i residenti stranieri possono votare alle amministrative dopo alcuni anni, un modello che bilancia inclusione e appartenenza.

La vicenda italiana e le elezioni romene mostrano che il voto all’estero è uno strumento potente ma controverso. Se da un lato preserva il legame con la patria d’origine, dall’altro rischia di alimentare tensioni o diventare un campo di manipolazione. Forse la soluzione risiede nel ridefinire i confini della partecipazione: chi sceglie di vivere stabilmente altrove dovrebbe gradualmente trasferire i propri diritti politici al nuovo contesto, favorendo un’integrazione reciproca. Questo approccio non solo ridurrebbe il rischio di frodi o influenze esterne, ma riconoscerebbe il contributo degli immigrati alle società che li ospitano, in un’ottica di democrazia più coesa e inclusiva.

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