lapostadelcignonero

Lo stupro dell’intimità sottomessa alla condivisione compulsiva

 

Caro Cigno Nero,

Non sono una persona che vive sui social. Credo che ognuno abbia il diritto di usarli come vuole. E in effetti sui social ci si può stare per tanti motivi. Tra questi sicuramente quello che trovo più utile e sensato è quello che promuove e diffonde cultura. Purtroppo mi rendo conto di quanto oggi questi luoghi siano sempre più diventati un palcoscenico personale su cui esibirsi ed esibire la propria vita, ma, il che è peggio, spesso a discapito degli altri.

Oggi si condivide tutto a livello virtuale, ma con un pubblico anonimo che invece di arricchirci restituendoci qualcosa di personale e prezioso che arricchisca a sua volta il nostro racconto, ci mette cuori o emoticon, che non richiedono alcuno sforzo e alcuna riflessione. E la cosa peggiore è che questo ci basta, o peggio, ci appaga. Se già prima non vivevo sui social, dopo l’ennesima spettacolarizzazione del privato ho deciso di allontanarmene, almeno per un po’. Mi riferisco al caso della kiss cam al concerto dei Coldplay. Ho provato a parlarne “nella realtà” con diverse persone, amici, parenti, colleghi di lavoro, per provare a capire come possiamo essere arrivati al punto che i social possano rovinarci la vita, farci perdere il lavoro, distruggere la nostra famiglia e la nostra immagine sociale, per qualcosa che un tempo era una nostra sacrosanta responsabilità etica, privata. E mi sono resa conto che non se ne esce. È un dato di fatto. Oggi il privato non esiste più. E per quelli che ancora cercano di difenderlo e custodirlo si tratta di scegliere tra una vita “insolita” per i tempi, che ci taglia fuori da una serie di cose, e la rinuncia a quegli spazi vitali per l’animo. Non credi che ci sia in tutto questo una mancanza di equilibrio tra ciò che è giusto resti privato e ciò che può essere di pubblica utilità? È giusto che la nostra immagine, che per quanto sociale contiene sempre una sua parte di privato, con un semplice gesto di un dito su uno smartphone diventi di dominio pubblico a nostra insaputa? È possibile che la legge sulla privacy non abbia nessun valore e non riesca a tutelarci nel mondo virtuale?

Marta

Cara Marta,

quello di cui parli ha un nome: intimità. Quando pensiamo all’intimità pensiamo a situazioni che con gli altri non hanno nulla a che fare. Ma non è proprio così. Prima di “entrare in intimità” però proviamo a capire quale scenario abbiamo davanti. Dal momento in cui ci è stato messo a disposizione uno spazio pubblico virtuale e libero in cui esprimerci, il nostro rapporto con il privato è per forza di cose cambiato. Narcisismo, voyeurismo e manie di vario genere hanno trovato il loro canale preferenziale. Anche se non sempre, come dici. La libertà che ci è rimasta è quella di abitare in altri modi questi spazi e di prendere le distanze, virtualmente e non solo, da quello in cui non ci riconosciamo. Ma è anche vero che i social sono un mondo da cui non sempre possiamo prendere le distanze. Ne è un esempio la vicenda a cui ti riferisci dei due amanti ripresi dalla kiss cam al concerto dei Coldplay. Che non è il primo caso, né sarà l’ultimo, di una spettacolarizzazione delle vite degli altri a loro insaputa (spesso fatta passare come nuova forma di arte) che diventa virale. 

I social vivono sempre più di immagini, che a differenza di quelle appartenenti all’arte fotografica, pittorica e cinematografica, sono state private della loro storia e quindi della loro intimità. 

Cosa raccontano le immagini degli altri postate sui social, di quegli “altri”? Il sospetto è che nel gesto di immortalare qualunque cosa cada sotto i nostri occhi, spesso senza nemmeno darci il tempo di goderci la vista o di pensare alle conseguenze delle nostre azioni in un’etica della responsabilità come invece ci suggeriva Max Weber, si nasconda una nuova forma di narcisismo patologico: parliamo sempre di noi, ci mostriamo e mettiamo in mostra attraverso gli altri, che però restano ignari del ruolo che il nostro ego ha dato loro. E lo facciamo puntando sulla certezza che ciò che offriamo al nostro pubblico soddisfi la voglia di sapere delle vite degli altri, ma un sapere privo di interesse reale, molto simile invece all’ intrattenimento: che si tratti di una relazione clandestina, della moda di non molto tempo fa di fotografare estranei che dormivano sugli aerei e in treno, o semplicemente di immortalare gente per la strada, di cui non sappiamo assolutamente nulla, ma che stiamo esponendo allo sguardo e al giudizio pubblico attraverso pagine Instagram dedicate. 

La vita degli altri data in pasto ai social sembra così nascere da un voyeurismo collettivo che descrive bene quanto abbiamo smesso, paradossalmente, di interessarci e accorgerci della dimensione umana, e quanto invece siamo diventati ossessionati dal privato, di cui, di fatto, derubiamo l’altro. Un privato che dobbiamo mostrare, che sia il nostro o quello altrui. Chiaramente, non si tratta di un comportamento nuovo, nato con i social. Da sempre ci appartengono il giudicare tutto e tutti, l’entrare prepotentemente nello spazio altrui, il commisurare la nostra vita a quella degli altri. Ma un tempo tutto questo riusciva a conservare una qualche dimensione intima dal momento che il pettegolezzo su un tradimento o un commento su una signora vestita in modo stravagante restavano un sussurro condiviso tra pochi. 

È perciò arrivato il momento di chiederci cosa sia davvero questa intimità che sembra scomparsa dal nostro campo visivo (ma anche esistenziale) nel momento in cui tra noi e il mondo esterno si è frapposto uno smartphone pronto a catturare qualsiasi cosa per poi riversarla sui social. Lo spiega molto bene François Jullien, che apre il suo libro “Sull’ Intimità” con un racconto di Simenon dal titolo “Il treno”. È il maggio del 1940, siamo all’inizio della Seconda guerra mondiale e i nazisti invadono la Francia. Marcel Féron, un commerciante benestante, deve perciò prendere, insieme a sua moglie e a sua figlia di quattro anni, un treno che li porterà lontano dalle zone di combattimento. Féron viene però separato da sua moglie e da sua figlia e fatto salire su un vagone bestiame insieme ad altri uomini. Al momento della partenza, nel caos generale, il treno viene diviso in due e così Féron perde definitivamente le tracce della sua famiglia. Quello che succede da quel momento in poi è un’ esperienza del tutto nuova e inaspettata per lui. Nel suo vagone c’è una donna senza bagaglio che non si sa come sia finita lì. A poco a poco, prudentemente, i due si avvicinano. Lui non saprà nulla di lei a parte il fatto che, uscita di prigione è partita frettolosamente. Il viaggio su quel treno è fatto di molte fermate e di improvvisi bombardamenti. Non se ne conosce la destinazione. Quando arriva la notte, nel vagone sovraffollato, soffocante, pieno di corpi ammassati, ma anche, per quanto debole, di speranza per un nuovo inizio, Féron si distende accanto alla donna: “Nella notte, giace su di lei; con gesto netto, non brutale, lei acconsente, lui la penetra”.

Ora, la prima domanda è: quanti di noi avrebbero ripreso con uno smartphone questa scena oggi, in un contesto storico diverso? Dopotutto i social sono pieni zeppi di immagini di amori clandestini di personaggi più o meno famosi, come pure di persone che fanno sesso in luoghi pubblici. 

La seconda domanda: cosa ha a che fare con l’ intimità un rapporto sessuale tra estranei consumato in un vagone pieno zeppo di persone accomunate da un’esperienza di esodo? Ed è proprio qui che Jullien ci dice qualcosa di interessante sul concetto di intimità. L’intimità, che per lui non è un obbligato corollario dell’amore, è giocata su una sorta di paradosso, perché si muove tra la nostra interiorità, la parte più profonda e nascosta di noi, e in quanto tale privata, e l’apertura all’altro, che diventa la ragione, la spinta che ci smuove da quel privato, dal luogo interiore cui siamo abbarbicati, per incontrare una nuova forma di intimità: quella che crea un canale comunicativo tra sé e l’altro, scavando con discrezione un tunnel che diventa poi copertura per chi in quell’ intimità è coinvolto. L’ intimità che è rifugio in se stessi diventa rifugio tra chi in essa si conosce e riconosce.

Tale è la risorsa dell’intimità, potente e resistente alla drammaticità di un’esperienza come quella descritta dal romanzo di Simenon con cui Jullien apre il suo libro. Così suonano davvero attuali le sue parole a proposito dell’insolito incontro tra Féron e la donna misteriosa: “In un mondo senza più la minima intesa interiore, completamente trafitto dal Fuori, un simile atto, di per sé, ripristina un dentro, anzi lo esige […] Il gesto di penetrazione è quasi una ribellione: di comune accordo, ma tacitamente, essi decidono di aprire nel Fuori un ‘più dentro’ in cui ritirarsi, in cui recuperare se stessi”.

Tornando al presente, non possiamo che chiederci: quale intimità è possibile nella spettacolarizzazione dei suoi gesti? Perché abbiamo bisogno di mettere in scena le relazioni, nostre e degli altri? Esiste una forma di abitare che tuteli il nostro privato in un luogo, i social, che è irriducibilmente pubblico? Senza intesa non c’è intimità. Ma non può esserci intesa in una immagine rubata. Le immagini “scoperte” degli altri che riempiono i social network diventano oggetto di una sola storia che passa attraverso migliaia di bocche digitali. Per salvare l’intimità bisognerebbe smettere di esporre l’altro, gli altri, a loro insaputa, a quello sguardo che per Sartre toglie libertà rendendoci oggetto e non più soggetti; bisognerebbe che lo sguardo restasse sul volto, come suggeriva Lévinas, uno sguardo in movimento che si ferma laddove i nostri occhi, e non la fotocamera di un cellulare, incontrano altri occhi, non certo una faccia esposta in queste nuove forme di comunicazione che fanno e danno mostra di sé.

Allora, dove abbiamo lasciato quella componente di mistero che un tempo faceva parte delle nostre vite rendendole anche per questo uniche e interessanti? Di cosa oggi nutriamo la nostra immaginazione e la curiosità nell’incontro con l’altro che dovrebbe farci uscire dalla dimensione interiore dell’intimità per aprirci all’intimità dei gesti condivisi, che in quanto tali, coinvolgono l’altro? C’è un motivo se la legge sulla privacy, che esiste anche sui social per quanto sembriamo averlo dimenticato, viene applicata laddove il volto immortalato è riconoscibile. E quel motivo conta ancor più nel momento in cui ci ricordiamo che esistono immagini belle e suggestive che ritraggono gesti, particolari, ombre, sfumature che invece di scoprire l’altro lo custodiscono come “sotto un telo”, nella sua intimità, lasciando a lui e solo a lui la scelta di mostrarsi nella condivisione. 

Una volta Matteo Curti, autore televisivo e radiofonico, videomaker e fotografo ha detto: “Ognuno di noi ha qualcosa di sé che non gli piace”. Se questo si traduce nell’estrema attenzione per la nostra immagine da postare, perché non ne teniamo conto quando la fotocamera la giriamo per puntarla verso l’altro?

Maria Luisa Petruccelli

Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
Chi scrive accetta di vedere pubblicato quanto invia.

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.