Memoria e Futuro

Tutto il potere ai Ras

di Marco Di Salvo 21 Novembre 2025

C’è qualcosa di profondamente italiano (direbbe l’indimenticabile Stanis La Rochelle) nel fatto che mentre Milano ragiona su Diego Abatantuono come possibile assessore alla sicurezza, la Toscana nomini un assessore al “diritto alla felicità” e piazzi in prima fila due giovani ventenni. Due Italie che incarnano quella schizofrenia geografica e culturale che è il nostro marchio di fabbrica.

Partiamo da Milano, dove l’intervista di Abatantuono sulla sicurezza urbana ha scatenato l’ipotesi: perché non lui come assessore? Ed è qui che il paradosso diventa deliziosamente amaro. Perché Abatantuono che oggi lamenta l’insicurezza della capitale meneghina è stato proprio il Ras del quartiere in un  film (non trascendentale) del 1983, prima ancora, in “Eccezzziunale… veramente” del 1982, era Donato Cavallo, capo degli ultrà milanisti. Un personaggio brutale e contraddittorio che incitava il suo gruppo alla violenza ma fuggiva davanti a un tifoso avversario aggressivo.

L’ironia è shakespeariana. Il capo banda che diventa sceriffo. Chi per contratto cinematografico mandava all’ospedale i rivali interisti, oggi si scaglia contro chi fa violenza davvero. È il classico percorso dell’invecchiamento italiano: da teppista di celluloide a tutore dell’ordine costituito.

Ma la questione è, forse, più complessa. Come narrano le cronache, Abatantuono nasce a Milano nel 1955 da padre pugliese, Matteo, calzolaio di Vieste, e madre comasca, Rosa. Dagli amici del padre e da quella comunità meridionale che negli anni Cinquanta aveva colonizzato la periferia milanese e la zona di Lorenteggio, ricava il suo primo grande personaggio: il “terrunciello”, l’immigrato dal sud Italia che parlava un personalissimo slang.

Quindi sì, i teppisti di allora erano “i nostri” ragazzi, ma fino a un certo punto. Erano la seconda generazione di immigrati meridionali, quella che si integrava parlando milanese ma mantenendo inevitabili tracce dell’accento pugliese, della gestualità del sud. Un mix tra concretezza nordica e calore pugliese diventato la sua cifra artistica. Quella Milano anni Ottanta delle case popolari dove a ora di pasti c’era un misto clamoroso di profumi, cucina pugliese e siciliana, dove sentivi il cous cous diffondersi per le scale.

Il capo ultras Donato Cavallo era proprio questo: figlio dell’immigrazione interna, milanese di seconda generazione, perfettamente integrato ma con radici altrove. Oggi, quando Abatantuono parla di sicurezza, i “ras” delle cronache hanno facce ancora più diverse, storie che arrivano da ancora più lontano. E forse proprio per questo il suo j’accuse è così particolare: è il lamento di chi vede strati successivi di immigrazione sostituire quelli precedenti, in un processo che si ripete ciclicamente.

Dall’altra parte c’è la Toscana, con una mossa di puro marketing politico. Il presidente Eugenio Giani, settantenne navigato, ha costruito la sua narrazione del rinnovamento con un trucco da manuale: piazzare in vetrina due giovani ventenni – la vicepresidente e il sottosegretario – per poter dichiarare che “l’età media tra sottosegretario e vicepresidente è di 25 anni”. Dietro questa facciata, però, la giunta resta nelle mani di figure esperte: tre assessori confermati e cinque nuovi, tutti con curriculum consolidato e assessorati pesanti. I giovani sono due su otto assessori. Il resto è narrazione.

Ma il vero colpo comunicativo è l’assessore alla felicità. Un’idea che strizza l’occhio alla Costituzione americana in una terra che fino a ieri era l’epicentro del Partito Comunista Italiano. Dal materialismo storico alla mindfulness regionale: se non è una parabola grottesca della storia italiana, poco ci manca.

Il problema vero è la generazione di mezzo. Quelli tra i quaranta e i cinquantacinque anni semplicemente non esistono sulla scena. Sono stati troppo comodi nell’ombra dei vecchi boss, troppo poco coraggiosi per sfidare il sistema, persi com’erano a credere che un certo modo di vivere sarebbe durato per sempre e presi in mezzo a tutte le silenziose rivoluzioni che li hanno circondati. E così oggi abbiamo questo salto grottesco, almeno dal punto di vista d’immagine: dai settantenni ai ventenni, senza via di mezzo. E i settantenni, furbi, mettono i ventenni in vetrina mentre loro continuano a governare.

Il contrasto è stridente. Milano fantastica di affidare la sicurezza a un ex-capo ultras cinematografico settantenne, figlio dell’immigrazione meridionale che ora si scaglia contro nuove forme di marginalità. La Toscana nomina un assessore alla felicità e piazza strategicamente due giovani come manifesto pubblicitario, mentre la sostanza resta in mano a chi sa come funzionano le cose.

Due approcci diversi allo stesso problema generazionale. Entrambi surreali, entrambi raccontano un Paese che non sa gestire i passaggi di consegne. Un Paese dove chi ha settant’anni evoca altri settantenni come maître a penser o si circonda di ventenni come paravento, mentre la generazione che dovrebbe governare resta in sala d’attesa senza coraggio né ambizioni.

Forse il vero problema è che ci prendiamo troppo sul serio. Abatantuono lo sa bene: ha passato una vita a prenderci (per mestiere e per natura) per il sedere, a mostrarci quanto siamo ridicoli nelle nostre contraddizioni. E adesso eccolo qui, protagonista involontario dell’ennesima scena surreale. Magari la soluzione non è né il Ras convertito né l’assessore alla felicità, ma semplicemente ammettere che non abbiamo la più pallida idea di cosa fare. E che in fondo, tra un settantenne che urla e un ventenne che sorride, forse dovremmo tutti prenderci un po’ meno sul serio e ridere di questa tragicommedia che continua a replicarsi, sempre uguale eppure sempre diversa, come le stagioni di una serie tv che nessuno ha il coraggio di cancellare.

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