Memoria e Futuro
Vent’anni dopo
Domani i giornali non usciranno. Oggi i siti di informazione “classica” sono fermi. I giornalisti italiani hanno proclamato uno sciopero che arriva vent’anni dopo l’ultimo per il contratto, per protestare contro un accordo scaduto da dieci anni e denunciare la perdita del 20% del potere d’acquisto. Mi chiedo: dopo vent’anni, cosa possiamo aspettarci di diverso da un’astensione che segue gli stessi schemi di sempre?
Due decenni in cui il mondo dell’informazione è cambiato radicalmente, in cui sono nate e morte testate, in cui migliaia di precari hanno lavorato senza diritti, in cui l’ecosistema mediatico si è trasformato completamente. E dopo tutto questo tempo, la risposta del sindacato è fermare i siti per ventiquattro ore e non far uscire i quotidiani domani. Il contratto è formalmente scaduto nel 2016 e da allora viene solo prorogato, senza un nuovo impianto né adeguamenti strutturali. Nove anni di stallo con regole pensate per un’altra epoca.
Parliamoci chiaro, fermare i siti web e bloccare l’uscita dei quotidiani nel 2025 ha un impatto praticamente nullo. Il pubblico, sempre più ridotto, che si informa lo fa attraverso mille canali alternativi: social network, newsletter, piattaforme internazionali, podcast. La maggior parte delle persone nemmeno si accorgerà dello sciopero. Gli unici a subire conseguenze concrete sono i precari che perdono la paga giornaliera senza alcun beneficio in cambio. Gli editori, che secondo la FNSI hanno dimezzato i ricavi ma continuano a ricevere milioni di contributi pubblici, non sentiranno alcuna pressione reale.
Se dopo vent’anni ci troviamo a ripetere lo stesso schema, evidentemente il problema è nella forma di protesta scelta. Uno sciopero “al contrario” potrebbe essere molto più efficace: invece di fermarsi, lavorare il doppio producendo inchieste sui bilanci degli editori, sulle sovvenzioni pubbliche ricevute, sui compensi dei vertici aziendali, sulle condizioni reali dei precari nelle redazioni. Trasformare ogni giornale e ogni sito in una tribuna di denuncia del sistema editoriale italiano. Questo sì che creerebbe pressione e imbarazzo, perché userebbe l’arma più potente che i giornalisti hanno: la capacità di fare informazione. Come è successo qualche giorno fa per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne sarebbe bello vedere un quotidiano monotematico diretto da un precario che al suo interno racconta qual è la vita e le condizioni di lavoro di chi fa informazione oggi nel nostro paese.
Oppure si potrebbero organizzare scioperi mirati sui prodotti più redditizi: fermare solo le edizioni del weekend, quando le vendite sono più alte, o bloccare gli inserti speciali che generano fatturato pubblicitario. Astensioni brevi ma ripetute, che creino un danno economico reale senza annullare completamente il servizio informativo. O ancora: pubblicare i giornali con tutte le firme sostituite da “Redattore in sciopero – stipendio: X euro”, rendere visibili i compensi reali, mostrare concretamente cosa significa lavorare con un contratto scaduto da dieci anni.
Come ho scritto nel mio curriculum pubblicato su Gli Stati Generali, auspico l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti. Un’istituzione che non svolge più le funzioni per cui è stata fondata e che si è trasformata in un carrozzone burocratico. Ma anche la FNSI merita un’analisi critica profonda. Anche qui, servirebbe che qualche giornalista facesse un’inchiesta seria sui risultati ottenuti dal sindacato in questi vent’anni: quanti precari sono stati stabilizzati? Quanti giovani hanno ottenuto contratti degni? Quale tutela concreta è stata offerta ai freelance?
Un sindacato non dovrebbe muoversi solo a difesa degli iscritti, ma battersi per regole universali di dignità del lavoro nel settore. Servirebbero forme di rappresentanza che includano davvero tutti i lavoratori dell’informazione, non solo i garantiti che possono permettersi la tessera sindacale.
La vera questione è se esistano ancora margini per forme di protesta efficaci nell’industria dell’informazione. Gli editori hanno dimezzato i ricavi ma ricevono sovvenzioni pubbliche. I lettori si sono spostati altrove. Il modello di business è in crisi strutturale da anni. Forse serve riconoscere che gli scioperi tradizionali appartengono a un’epoca finita e che servono strumenti completamente nuovi. Forme di protesta che usino la capacità di fare informazione come arma principale, che rendano visibile lo sfruttamento invece di nascondersi dietro l’assenza, che costruiscano alleanze con i lettori invece di lasciare vuoti informativi.
Dopo vent’anni dall’ultimo sciopero per il contratto, ripetere lo stesso schema dimostra solo l’incapacità di immaginare alternative. E senza alternative concrete, questo sciopero passerà come tutti gli altri: senza lasciare traccia, senza produrre cambiamenti reali. Domani i giornali non usciranno, dopodomani tutto tornerà come prima.
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