Il coraggio del volontariato ossigeno nella pandemia

26 Maggio 2020

Gromo è un paesino di 1.202 anime in alta Valle Seriana. Ossia alla periferia del centro del contagio che ha visto nel corso del fiume Serio la propria direttrice principale, che da Alzano sale verso le Orobie. In un frangente in cui la lungamente decantata sanità lombarda ha prestato fin troppo il fianco a motivate accuse di cattiva gestione, disorganizzazione, cupidigia, se non addirittura folle incoscienza, qui si può trovare un esempio di efficienza uscito praticamente indenne dalla tempesta che lo ha travolto. E in tale successo un ruolo imprescindibile è stato giocato dal volontariato, dal darsi incondizionato alla comunità.


Fondata nel 1979 per rispondere alle esigenze di un territorio montano e marginale, la Croce Blu di Gromo fa parte dell’Associazione Nazionale Pubbliche Assistenze (Anpas) e conta un organico di circa 150 persone; di queste, solo nove sono i dipendenti, mentre i restanti hanno semplicemente deciso di dedicare il proprio tempo libero al prossimo. A capo di questa squadra – e presidente del comitato Anpas provinciale di Bergamo – è Battista Santus, infermiere di lungo corso che con autentica passione mi accoglie nella sede dell’organizzazione e mi illustra le varie attività svolte. In tempi ordinari, si tratta di attività di emergenza sanitaria su chiamata delle Centrali Operative di Areu (Azienda regionale emergenza urgenza), antincendio boschivo e protezione civile. Uno spettro ampio di interventi in coordinamento con altre associazioni sul territorio e reso possibile dalla presenza nella centrale operativa di cinque persone e di altrettante reperibili su tre turni di otto ore ciascuno. Nella sua meticolosa illustrazione di ciò che a buon titolo può considerarsi anche una sua creatura, Battista non tralascia neppure attività solo apparentemente secondarie, dal servizio di telesoccorso in funzione dal 1987 tramite dispositivi salvavita distribuiti ad anziani in difficoltà alla messa a disposizione di brandine all’aeroporto di Orio al Serio laddove scioperi o maltempo costringano i viaggiatori alla permanenza notturna nel terminal.


L’acme dell’orgoglio traspare però quando vengo iniziato a quello che Battista definisce il fiore all’occhiello della Croce Blu, ossia il magazzino – come viene chiamato confidenzialmente il polo logistico dell’associazione. “Quando vengono i funzionari del comando regionale della protezione civile, gli brillano gli occhi”, mi confida Battista. E pure a lui gli occhi brillano al di sopra della mascherina mentre si profonde in dettagli tecnici e mi illustra la dotazione di mezzi e dispositivi che riempie una rimessa di 800 metri quadrati. Impossibile prendere nota di tutto, ma basti sapere che qui – rigorosamente catalogato – c’è il necessario per impiantare un campo per 250 persone dotato di tende pneumatiche e autostabili, duecentocinquanta brandine, cinquecento coperte, corrente elettrica, impianto di riscaldamento e condizionamento a seconda della stagione, cisterna coibentata per 1.500 litri d’acqua a uso alimentare, gruppi elettrogeni a gasolio, una cucina praticamente pronta all’uso, bagni, docce e una lavanderia da campo. A ciò vanno poi aggiunti i veicoli con cui trasportare tutto quest’armamentario e altri mezzi che vanno da uno scavatore-muletto-spazzaneve a una roulotte adibita a posto medico avanzato. “Le emergenze nazionali le abbiamo fatte tutte, dal terremoto dell’Irpinia nel 1980 in poi”, sancisce Battista con un “noi” che trasuda spirito di corpo. L’Aquila, Amatrice, alluvioni di Genova e Livorno: sono solo alcuni dei passati teatri di intervento della Croce Blu. Finché l’emergenza se la sono – ce la siamo – trovata sull’uscio di casa.


 


Con Valerio Zucchelli, responsabile operativo, cerchiamo di ricostruire la cronologia di come il coronavirus è risalito come un maremoto in questa stretta vallata. “Le prime avvisaglie si sono avute a partire dal 20 febbraio”, racconta Valerio, “Allora hanno iniziato a chiederci dalla centrale operativa provinciale del 112 di spingerci al di fuori della nostra zona abituale di competenza – l’alta Valle Seriana – verso la media e bassa valle per trasportare in ospedale generici “pazienti infettivi”, dicevano.” Nel frattempo, all’insaputa dei più e nel silenzio dei pochi che sapevano, all’ospedale di Alzano – a una quarantina di chilometri da Gromo – una miccia trascurata dava fuoco alla santabarbara del contagio. Come ricordano i miei interlocutori, la mobilitazione è stata abbastanza tempestiva: la prima riunione strategica del 112 si è tenuta il 23 febbraio, con l’atteso innalzamento del livello di guardia. Nel frattempo, la Croce Blu di Gromo ha continuato a fare la staffetta dall’Alta Valle alla pianura, recuperando pazienti con difficoltà respiratorie e trasportandoli in ospedali di tutta la regione. “Adesso il momento di maggior pressione su strutture e servizi di emergenza è passato”, prosegue Valerio, “ma nelle scorse settimane ci siamo trovati a dover aspettare anche un paio d’ore in ambulanza prima di riuscire a scaricare un paziente in ospedale o a passare anche da tre strutture per trovarne una disposta ad accoglierlo”. E qui di ospedali ce ne sono pochi, piccoli, distanti tra di loro e collegati da strade tutte tornanti.


Intorno al 10 marzo, l’ondata ha raggiunto anche l’Alta Valle. E allora, gli infetti Covid, la Croce Blu se li è trovati fuori dalla porta. In quei giorni è cominciata, per chi abita in alta valle, la litania delle sirene, con non meno di dieci ambulanze al giorno sfrecciare per le strade di un’area che conta poche migliaia di abitanti. “Una volta abbiamo dovuto trasportare un signore da un paesino qui vicino fino a Como per trovargli un letto: una cavalcata di 120 chilometri”, ricorda Battista, ribadendo la scarsità di posti negli ospedali di zona. A Valerio, invece, è rimasta particolarmente impressa una storia che – senza timori di esagerare – acquisisce i tratti della tragedia famigliare. “Nel giro di un paio di giorni, a marzo, ci siamo trovati tre volte a bussare alla stessa casa. Chiamati tre volte per soccorrere prima un sessantenne, poi il suo fratello gemello, infine loro sorella”, sospira Valerio aggiungendo con rammarico che solo quest’ultima è sopravvissuta: “I suoi due fratelli se ne sono andati lasciandola sola”.


Una delle caratteristiche della sciagura che si è abbattuta, acquazzone tra inverno e primavera come quelli sulle malghe in estate, è appunto l’avere smembrato intere famiglie, sovvertendo l’ordine naturale delle cose, lasciando orfane dei figli le madri, dei nipoti i nonni. E a ciò si aggiunge la solitudine del congedo, e ancor prima della stessa morte, due viaggi intrapresi in un’asettica stanza d’ospedale e spesso a bordo di quei camion carichi di bare che si allontanano da Bergamo la cui immagine è diventata tristemente nota.


Ciononostante, dalle parole di Vittorio e Battista emergono l’orgoglio e la consapevolezza di avere compiuto al meglio la propria missione di soccorritori. Una delle ragioni principali è l’assenza sul campo di caduti e feriti tra i soccorritori, un successo che stride se comparato ai numeri di chi negli ambulatori, sulle autoambulanze, in corsia – sul proprio luogo di lavoro, insomma, anche volontario – si è infettato o ha perso la vita. Per Battista non si tratta di miracolo; bensì di tempestività, previdenza e coordinamento, qualità purtroppo venute a mancare a gran parte del sistema sanitario, in Italia e altrove. “Noi abbiamo beneficiato di un felice connubio tra fortuna e lungimiranza.”, racconta Battista. “La fortuna è stata nell’avere in magazzino dall’anno scorso duemila mascherine Ffp2 donate da un’azienda milanese e una buona scorta di maschere chirurgiche. La lungimiranza è stata il far utilizzare dalla fine di febbraio le prime ai nostri soccorritori e le seconde ai pazienti soccorsi.” Valerio evidenzia anche l’importanza della disinfezione, resa possibile grazie alla presenza in sede di un macchinario all’ozono per la sanificazione dei locali almeno tre volte al giorno e dei mezzi di soccorso alla fine di ogni servizio. Un ultimo elemento fondamentale nell’affrontare l’emergenza è stato poi il coordinamento. In tal senso, Battista ha preso in mano la situazione in quanto presidente di Anpas Bergamo e ha organizzato tutte le sere alle 18 una riunione in teleconferenza dei vari corpi volontari di soccorso della provincia al fine di monitorare la situazione d’insieme sul territorio ed elaborare una risposta sinergica.


“Molto semplicemente abbiamo tentato di ovviare a una carenza dall’alto. E penso che ce l’abbiamo fatta”, afferma Battista. “Dispositivi di protezione individuale e sanificazioni sono stati frutto dell’iniziativa della Croce Blu e delle altre associazioni, non certo di una regia superiore, che fosse l’Agenzia di tutela della salute – l’Ats fu Asl – o la Regione. L’Azienda regionale emergenza urgenza (Areu), ad esempio, ha sì fornito mezzi ed equipaggi aggiuntivi sul territorio, ma mandandoli spesso senza dispositivi di protezione individuale e non formati. Siamo noi ad avere fornito mascherine e formazione sulle procedure di vestizione”. Il quadro creatosi è quindi paradossale, con strutture e mezzi volontari equipaggiati di gran lunga meglio di quelli istituzionali.


In tal senso, è utile ricordare un episodio emblematico raccontatomi da un operatore sanitario un paio di giorni prima dell’incontro con Battista e Vittorio. Questi mi ha parlato infatti di un infermiere di uno dei pochi ospedali della valle (di una struttura “istituzionale”, quindi, non certo volontaria) che si sarebbe fatto un turno di dodici ore girando case e ospedali della zona malgrado febbre e tosse. Alla fine della giornata, questo poveretto che non si reggeva neppure in piedi dopo aver prestato servizio dalle 8 alle 20 – e contagiando chissà quante persone – sarebbe stato poi ricoverato al reparto di infettivologia del Giovanni XXIII di Bergamo. Una vicenda su cui ora stanno indagando le autorità giudiziarie.


Mentre io, Vittorio e Battista chiacchieriamo, una sola ambulanza ha lasciato la centrale operativa della Croce Blu. Si tratta di andare a recuperare in ospedale una signora rimessa oggi per riportarla a casa. L’emergenza sta rientrando – ma lo diciamo sottovoce. L’ordinarietà del donarsi alla comunità di queste donne e questi uomini non conosce invece riposo.


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CAT: salute e benessere

2 Commenti

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  1. unoqualsiasi 4 anni fa

    In questo tempo di pandemia si scoprono molte cose, scoperte del valore scientifico tipo che se metto una pentola d’acqua sul fuoco, dopo un po’ l’acqua è calda.
    Siamo uno dei pochi popoli al mondo che, per andare all’ospedale dobbiamo ringraziare i volontari e non i sapeur pompiers come in Francia.
    Poi arriva lo sdegno, nell’occasione, è poi, a cose normali chiunque se ne infischia. A cose normali un articolo così non si fa. Per capirci.
    Questo è il problema, perché sdegnarsi in emergenza e dormire nel tempo della normalità è il nostro male.
    Il problema è che sdegnarsi oggi, ma aver dormito ieri, è il problema.
    Che non è compreso dagli sdegnatori di oggi.
    Diceva Spinoza: Non è il tiranno che fa gli schiavi, sono gli schiavi che fanno il tiranno.
    Diceva Gramsci: odio gli indifferenti.
    Mi permetto: mi stanno antipatici gli indifferenti fino a ieri, oggi diventati attivissimi..

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  2. baldale1991 4 anni fa

    Buongiorno! Sono purtroppo d’accordo con lei che nei tempi di emergenza si scopre come straordinaria tanto la banalità del bene quanto quella del male. Nel caso specifico, tuttavia, è il paradosso dell’inefficienza dell’istituzione – che finora (in quanto sistema sanitario lombardo) discretamente efficiente si era dimostrata – ad aprire gli occhi sulla realtà volontaria, il cui lavoro – prima come ora – è riconosciuto e stimato (almeno in realtà piccole come quella in oggetto).
    Grazie per i commenti, sempre benvenuti.

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