Benessere
VA BENE TUTTO, MA I VECCHI NO, GRAZIE
Si può parlare di giovani senza futuro, di cervelli in fuga, di esodati. Si può parlare dei miracoli che tocca fare per conservare il lavoro dopo che hai avuto un bambino o della maternità come un miraggio in questi tempi grami di crisi e precariato. Si può parlare della violenza contro le donne, di pedofilia, del problema dell’alcolismo tra gli adolescenti.
Sono certamente temi trattati sulla maggior parte dei magazine, femminili compresi, che tra uno stiletto di Jimmy Choo e l’ombretto mai-più-senza di Dior, Chanel o chi per loro, inseriscono volentieri qualche pagina tristona che non faccia sentire le lettrici troppo frivole, per carità.
Alla tristezza c’è un limite, però. Ci mancherebbe. E quindi per esempio non si può parlare, così mi pare, di un altro tema non meno urgente, grave, spinoso, certamente doloroso, ma mooooolto politico, che è la vecchiaia oggi.
Condizione rimossa, elusa, confusa, di certo fastidiosa. Specie se si va a vedere qual è la ricaduta che ha la cura dei nostri vecchi sulla nostra vita. Dico nostra perché appartengo a quella che in America chiamano la generazione sandwich, fatta di uomini e donne (soprattutto donne) di 45-55 anni incastrati tra due accudimenti: quello che abbiamo dedicato ai nostri figli e da cui stiamo cominciando a uscire e l’inizio dell’accudimento dei nostri genitori, tanto più penoso, difficile, straniante per certi versi. Nel frattempo, oltre tutto questo, si lavora. O ci si prova.
È innegabile, va detto, che non sia allegro leggere di quello che succede quando la madre o il padre anziani iniziano a perdere la loro autonomia, quando precipitano più o meno velocemente dentro la demenza (l’Alzheimer per esempio, la malattia del secolo), diventando altro da quello che sono stati, non tuo papà non tua mamma, ma estranei spesso furibondi o crudelmente fragili con le fattezze dei tuoi genitori.
Ci sono, dice l’Istat, 409 mila anziani con demenza che vivono in famiglia e il 72 per cento di questi ha anche disabilità fisiche: a loro volta, coinvolgono più di 900mila persone per il loro accudimento, tra consorti, figli, badanti. Il tasso di sofferenza psico fisica tra chi si trova a occuparsi di queste persone – la moglie, il marito o i figli – è elevatissimo.
Una tragedia, che mette in discussione convinzioni etiche coltivate in una vita, che suscita desideri di cui poi ci si vergogna, che lascia spossati, smarriti, consumati dentro. Oltre che in braghe di tela.
Già, perché lo Stato aiuta pochissimo: c’è un contributo per il badante (450 euro al mese, quando un badante che sta fisso in casa sei giorni su sette costa almeno tre volte tanto e spesso di badanti ce ne vogliono due), servizi asl che forniscono un tot di pannoloni (mai sufficienti però) o inviano a casa un infermiere due volte al mese se c’è per esempio da fare cambi di cateteri o altre amenità simili. In più, per fortuna, ci sono associazioni di volontariato che aiutano e supportano (ma il volontariato non è lo Stato).
Altrimenti ci sono le Residenze per gli anziani, alcune molto ben funzionanti, ma costosissime, altre, meno costose, dove la sola di idea di lasciare lì tuo padre ti toglie il fiato e mille anni di vita.
Immersa in una situazione di questo tipo, mi barcameno tra mio papà ormai del tutto inabile a fare qualsiasi cosa, preda di una demenza definita grave dai test psico cognitivi, ma ancora in grado di esprimersi con il linguaggio che gli è sempre appartenuto fatto di aggettivi ottocenteschi e locuzioni da vetusta burocrazia bancaria, e mia mamma travolta da un’inevitabile depressione.
E al sollievo di sapere che i miei genitori, dopo una vita intera di lavoro serio e onesto, possono usare le loro pensioni per pagarsi un’assistenza un minimo adeguata, si affianca lo sgomento al pensiero di che cosa sarà di noi che la pensione non l’avremo e che non potremo contare sui soldi dei nostri figli – chissà se lavoreranno e dove. Immagino, nei momenti bui, una popolazione di vecchi – già oggi ci sono 17 milioni di anziani per 11 milioni di giovani – malandati e poveri, in una sorta di mondo post apocalittico.
Ecco perché ho scritto sopra che si tratta certamente di un tema politico. Perché è una questione urgente, che va affrontata sia da un punto di vista etico (in un Paese in cui parlare di eutanasia è ancora una bestemmia) sia strutturale. Il silenzio, però, mi pare assordante. Del resto, è tempo di sognare, ci dicono. Stiamo sereni.
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