E così morimmo due volte: cronache dalla Val Seriana

31 Marzo 2020

L’Alta Valle Seriana non è montagna da riviste patinate. La sua bellezza schiva si apprezza maggiormente dall’alto delle sue cime, dove si celano laghi alpini e fitti boschi; non abbacina mentre si percorre l’unica striscia d’asfalto che vi si inerpica. Non è destinazione di settimane bianche rutilanti, ma piuttosto meta affezionata di chi nei decenni passati vi ha comprato casa, i villeggianti – termine qui ancora in uso – in una replica più modesta del rito del buen retiro della classe media lombarda parodiata da Gadda ne “La cognizione del dolore”. Il turismo qui è ancora visto come ultimo degli effetti collaterali delle bellezze del paesaggio e talvolta mal tollerato, insieme al traffico proveniente dalle città padane. Come spesso accade- o ci si vuole illudere accada in accordo con una diffusa etnografia spiccia – il carattere della natura si riflette nello spirito degli abitanti. Tanto taciturni quanto intraprendenti, eredi di un sano buon senso contadino recante con sé sia i pregi di generazioni use al lavoro duro che il sospetto residuale verso il forestiero dato dalla marginalità geografica, gli uomini e le donne di questa valle sono abituati a rimboccarsi le maniche di fronte alle avversità.


Non ci si immagini, tuttavia, un quadretto pastorale, da bucolica orobica. L’albero degli zoccoli ha fatto il proprio tempo anche qui e fino a un decennio fa un’economia prospera poggiava solide fondamenta nell’edilizia e nell’industria tessile. Il muratore bergamasco non è una macchietta, un dodo estintosi in epoca immemore. Sopravvive ancora oggi, pur barcamenandosi tra stagnazione dell’immobiliare e pagatori latitanti, alzandosi alle cinque o giù di lì per scendere verso la pianura a tirar su (lombardismo dovuto) palazzi e palazzetti di città; certo, oggi non è più l’immigrato meridionale il compagno di cantiere, ma lo straniero spesso diversamente colorato. La diffidenza permane, certo, ma il lavoro nobilita l’uomo e il bergamasco lo sa bene. Nell’ingranaggio della crisi, il tassello successivo è quello delle fabbriche tessili, che avevano nella Valle Seriana uno dei maggiori poli produttivi nell’Italia settentrionale, grazie anche alla disponibilità d’acqua garantita dal fiume Serio che la attraversa. Qui come altrove, la concorrenza straniera ha portato alla chiusura degli stabilimenti o alla delocalizzazione là dove la manodopera è a miglior mercato.

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Tassello successivo di questo domino è il calo demografico. Non sono pochi coloro che decidono di fare la valigia, spostandosi dove le possibilità di impiego sono maggiori, anche se a poche decine di chilometri di distanza, più vicini a Bergamo, resa più lontana di quel che non sia effettivamente sulla carta da un’unica arteria stradale inadatta a sostenere il flusso pendolare sempre più consistente. I venti comuni dell’Alta Valle Seriana – da Ponte Nossa fino a Valbondione, includendo la conca del monte Presolana e la collaterale Val del Riso,torrente affluente del Serio – sono passati dall’avere una popolazione residente di 39.138 abitanti nel 2014 ai 38.467 dello scorso anno, con una flessione negativa dell’1,7 per cento nel quinquennio. Dati che riflettono solo parzialmente un quadro di lento ma costante spopolamento. A non essere considerati, infatti, sono almeno due fattori: i giovani da una parte, i loro nonni dall’altra.


I primi sono protagonisti di un’emorragia che per molti inizia dalla fine delle scuole superiori, quando l’ingresso nel mondo universitario li chiama altrove e l’uscita da quest’ultimo li spinge a rimanere nelle città d’adozione, dove le possibilità d’impiego e in generale i servizi sono maggiori. I secondi, invece, sono – bontà loro – resi longevi da aria fina e decenni di sgambate, necessarie vista la morfologia del territorio. Non per tutti, però, l’età avanzata è sinonimo di salute e il binomio tra invecchiamento della popolazione e incremento della disoccupazione si è tradotto negli ultimi anni in un travaso dalle fabbriche alle case di riposo: diversi tra gli operai orfani di un’industria dismessa si sono reinventati come ausiliari socio-assistenziali (Asa) e operatori socio-sanitari (Oss) nelle quattro case di riposo del circondario, i cui 220 letti non sempre sono sufficienti a rispondere alle lunghe liste di attesa.


Spesso capita di sentire gli abitanti del posto che, tra il serio e il faceto, si lamentano di come l’Alta Valle Seriana sia morta: di lavoro, di servizi, di opportunità che vengono sempre più a mancare. Non ci si arrende al declino, ma la cecità di talune amministrazioni porta a pensare che un inutile supermercato in più curi l’astenia ormai cronica della valle più di quanto possa fare un ospedale. Quello di zona, nel comune di Piario, è stato recente oggetto di spoliazione; ultimo ad andarsene il reparto di maternità, condannato a soccombere all’utilitarismo sanitario che vede in un numero troppo basso di parti una ragione valida per privare un intero territorio della possibilità di farvi nascere i propri figli.


Finora si parlava di morte metaforica, tuttavia. Fino all’arrivo del contagio in questa valle prealpina, con il suo strascico di sofferenze, morti e lutti. Soprattutto tra le generazioni più vecchie, di quelle che hanno fatto in tempo a patire le privazioni della guerra. Ad andarsene tanti dei personaggi che rendono la provincia una fucina di storie, con il loro corredo di tic e mitologie da bar; tanti dei nonni che queste valli hanno visto sistemarsi, fare famiglia e poi ingobbirsi, tenendo per mano un nipote. Ma anche troppi che nonni – anche solo anagraficamente – non hanno fatto in tempo a diventare.


Uno dei miei libri preferiti da bambino è stato un romanzo di Gianni Rodari, “C’era due volte il Barone Lamberto”. Sull’isola di San Giulio, in mezzo al lago d’Orta, il ricchissimo barone ha assunto sei persone affinché ripetano in continuazione il suo nome, convinto che questo sia il segreto dell’immortalità confidatogli da un santone egiziano secondo il quale “colui il cui nome è sempre pronunciato resta in vita”. Nelle scorse settimane, quante volte si è sentito parlare della Valle Seriana in televisione. Ogni citazione, però, era il suggello di nuove morti,non di pretese di immortalità. Ci si auspica che la fine di questo lungo incubo non rimanga una vittoria di Pirro, ma sia opportunità di rinascita effettiva, seppur dolorosa.

(Foto di copertina di Luigi Bonetti)

TAG: coronavirus, montagna, sanità
CAT: Sanità

3 Commenti

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  1. gianmario-nava 4 anni fa

    Sul tema dei piccoli ospedali e di pochi casi trattati da ogni reparto in queste strutture, occorrerebbe discutere a fondo. Le ragioni di “risparmio” tanto criticate fanno parte di una valutazione complessiva che, anche per confutarla, deve essere esplicitata. Pochi casi non vuol dire solo costi alti per ogni intervento ma anche impreparazione dei medici e del personale che non possono matutare competenze sufficienti ad affrontare, ad esempio, le situazioni difficili. Concentrare (spoliare…) vuol dire anche garantire assistenza specialistica di miglior livello. Magari non è la soluzione adatta a territori lontani o collegati male, magari occorre che il piccolo ospedale decentrato sia in fondo un reparto di un grande ospedale di alto livello. E’ tutto da discutere ma non è possibile ignorare il punto e continuare sempre e solo con la geremiade sui “tagli”.

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  2. baldale1991 4 anni fa

    Buongiorno Gianmario! innanzitutto, spero che il pezzo le sia piaciuto. Sono completamente d’accordo con lei sul fatto che è necessario contestualizzare i tagli e le scelte in merito di piccoli ospedali e sanità territoriale. Non l’ho fatto nel pezzo perché sarebbe stato fuori posto in un articolo di stampo per lo più narrativo.
    Nel caso specifico, il reparto di maternità in questione coprirebbe un’area sì poco popolosa, ma piuttosto ampia e mal collegata, il che significa che una partoriente alle prese con una gestazione problematica deve anche farsi una cinquantina di chilometri di strade piuttosto tortuose e strette. In secondo luogo, la chiusura della maternità nel citato nosocomio di Piario è stata decisa dopo che – per pressioni anche politiche – era stata esclusa quella dello stesso reparto all’ospedale di Alzano Lombardo, il quale – in tempi ancora lontani dalla cattiva gestione della pandemia – si trova a pochi chilometri dagli ospedali di Bergamo.
    Ribadisco che concordo sulla necessità di accorpamento laddove possibile (e penso non solo alla sanità, ma anche alla parcellizzazione delle università e alla fusione tra i piccoli comuni) e mi scuso per aver buttato un po’ lì la questione del mio piccolo ospedale di montagna.
    Grazie ancora!

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  3. baldale1991 4 anni fa

    Buongiorno Gianmario! innanzitutto, spero che il pezzo le sia piaciuto. Sono completamente d’accordo con lei sul fatto che è necessario contestualizzare i tagli e le scelte in merito di piccoli ospedali e sanità territoriale. Non l’ho fatto nel pezzo perché sarebbe stato fuori posto in un articolo di stampo per lo più narrativo.
    Nel caso specifico, il reparto di maternità in questione coprirebbe un’area sì poco popolosa, ma piuttosto ampia e mal collegata, il che significa che una partoriente alle prese con una gestazione problematica deve anche farsi una cinquantina di chilometri di strade piuttosto tortuose e strette. In secondo luogo, la chiusura della maternità nel citato nosocomio di Piario è stata decisa dopo che – per pressioni anche politiche – era stata esclusa quella dello stesso reparto all’ospedale di Alzano Lombardo, il quale – in tempi ancora lontani dalla cattiva gestione della pandemia – si trova a pochi chilometri dagli ospedali di Bergamo.
    Ribadisco che concordo sulla necessità di accorpamento laddove possibile (e penso non solo alla sanità, ma anche alla parcellizzazione delle università e alla fusione tra i piccoli comuni) e mi scuso per aver buttato un po’ lì la questione del mio piccolo ospedale di montagna.
    Grazie ancora!

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