Se ci interessa la salute dei fumatori smettiamola di osteggiare il fumo 2.0

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22 Settembre 2018

La percentuale di fumatori sul totale della popolazione mondiale è in continuo calo dal 1970, con una decisa impennata negli ultimi 10 anni. Il trend è particolarmente forte nei Paesi sviluppati, con l’esempio del Regno Unito dove i fumatori sono passati dal 24% della popolazione del 2007 al 17.5% del 2017. Merito dei divieti, delle accise, delle immagini horror-splatter sui pacchetti e delle campagne di sensibilizzazione che poco ci mancava incitassero alla caccia al fumatore? Può darsi, ma a noi piace pensare che una buona parte del merito debba essere attribuita all’innovazione e a chi, volendo immaginare e produrre nuovi modi di fumare, abbia introdotto sul mercato forme di fumo più sicure e innocue della tradizionali bionde. Lo hanno chiamato Fumo 2.0: le sigarette elettroniche che prevedono l’uso di ricariche liquide con vari gusti e diverso tenore di nicotina (incluse quelle che la nicotina proprio non la hanno); ma anche i nuovi dispositivi che riscaldano ma non bruciano il tabacco, risparmiando gli effetti dannosi della combustione a cui, in linea di massima, sono attribuiti i principali danni alla salute. Philip Morris ha già lanciato sul mercato italiano le IQOS che sfruttano esattamente questa tecnologia, in futuro dovrebbe offrire anche altri prodotti simili — a testimonianza che Big Tobacco conosce benissimo dove si sposterà il mercato nei prossimi decenni, complici le nuove esigenze dei fumatori.

Sui dispositivi che promettono di scaldare e non bruciare il tabacco è ancora presto per parlare, ad oggi alcuni ricerche testimoniano un minore danno per la salute, ma, essendo di recente sviluppo, non si hanno molti dati su cosa comporti il loro consumo sul lungo periodo. Per le sigarette elettroniche il discorso è diverso, ed estremamente interessante. Per molti fumatori di bionde il passaggio alle e-cig non è semplicemente il soddisfacimento dell’esigenza di trovare un’alternativa più sana (e sull’effettiva riduzione del danno avremmo modo di parlare qualche riga più sotto): il fumo 2.0 è visto proprio come uno strumento transitorio per smettere completamente. E nel raggiungimento di questo obiettivo le e-cig hanno già ampiamente provato di essere un valido aiuto. Uno studio pubblicato sulla rivista scientifica BMJ, riportava il magazine The Verge, ha scoperto che chi fuma le sigarette elettroniche cerca di smettere con maggiore frequenza dei fumatori tradizionali. Ma non solo, avrebbe anche più chance di raggiungere il traguardo rispetto a chi sceglie le bionde. Non stupisce, dunque, che in alcuni Paesi come il Regno Unito gli stessi medici stiano investendo in campagne per incentivare il passaggio da sigarette a svapatori.

Sorprende già di più che esistano Paesi che hanno avuto la brillante idea di fare esattamente l’opposto. Italia in prima fila. Lo scorso novembre Roma era stata invasa da migliaia di svapatori provenienti da tutta Italia. Una manifestazione folcloristica, accompagnata da cori provocatori e nuvole di vapore coreografiche. Il motivo delle proteste? L’ex sottosegretario Simona Vicari era riuscita a far approvare un emendamento alla manovra di bilancio che, nei fatti, si è dimostrato una scure sul settore italiano dello svapo. L’intero settore passa sotto le grinfie dell’Agenzia dogane e monopoli. In un primo momento pareva che gli e-store dovessero chiudere dall’oggi all’indomani, poi nel testo definitivo si limiterà la vendita ai soli device. “É la morte della filiera italiana”, avevano commentato i principali esponenti del settore. Nel frattempo la Corte Costituzionale aveva dichiarato la legittimità della tassa sui liquidi di ricarica. Morale? Aumento vertiginoso dei prezzi con flaconi originalmente venduti a 5€ ora passati a 12-13€, come aveva denunciato al Fatto Quotidiano Gianluca Giorgetti di Scapart. “Al consumatore finale conviene quasi tornare alle sigarette. Ed è forse quello che vogliono ottenere”, aveva poi aggiunto.

Ma che senso ha? Chiaramente nessuno, e per molteplici motivi.

Più facile smettere grazie alle sigarette elettroniche, si diceva. Il 65% degli svapatori ha tentato almeno una volta di eliminare il vizio, con l’8% che ci è riuscito per un periodo di almeno 3 mesi. Numeri incoraggianti, se comparati con quelli della popolazione di fumatori tradizionali. La conclusione? “L’aumento sostanziale dell’uso di e-cig da parte della popolazione di adulti statunitensi è stata associata ad un significativo aumento del rateo di abbandono del fumo”, sentenziava la ricerca pubblicata sul BMJ, incoraggiando il legislatore americano a tenerne conto in sede di regolamentazione del nuovo mercato.

Ma smettere rimane comunque un’impresa, e per alcuni -legittimamente- non è nemmeno una priorità. Che dire, dunque, di chi dovesse passare alle sigarette elettroniche senza grosse ambizioni di smettere? Comunque meglio, dice l’ampia letteratura scientifica sui danni da vaping. Il verdetto è abbastanza eloquente, scriveva il The Guardian lo scorso dicembre: il rischio di sviluppare il cancro a cui sono esposti i fumatori 2.0 è appena l’1% rispetto a quello a cui sarebbero sottoposti fumando sigarette tradizionali.

Che non significa che siano innocue, ovviamente. Vuol dire che ad oggi sono il più importante ed efficace strumento per ridurre i rischi alla salute dei fumatori e aiutarli a smettere. Se vi pare poco…
Così Public Health England questo febbraio definiva “tragica” l’ipotesi in cui migliaia di fumatori, che potrebbero smettere grazie all’aiuto delle sigarette elettroniche, perdessero questa opportunità per via degli spauracchi che ciclicamente vengono diffusi sul fumo 2.0.

Perchè l’Italia non è l’unica in prima linea, nella trincea contro le sigarette elettroniche. Ad occupare uno spazio rilevante c’è anche l’Organizzazione mondiale della sanità. La dichiarazione di guerra al fumo 2.0 è contenuta già nel report di chiusura della Conferenza delle parti del 2014 – WHO Framework Convention. Pur riconoscendo che è estremamente probabile che le sigarette elettroniche producano meno elementi tossici delle sigarette, l’organizzazione preferisce mettere tutti i prodotti a base di nicotina in un unico calderone, continuando la sua battaglia per “denormalizzare” il fumo senza troppe distinzioni. Così nella parte dove si indicano le possibili regolamentazioni da adottare —laddove non si fosse provveduto a vietare completamente gli svapatori— viene suggerito di proibirne l’utilizzo negli spazi pubblici, così come la pubblicizzazione e la possibilità di venderli come prodotti più sani delle sigarette (nonostante questo sia fattuale). Ma non solo, devono sparire dal mercato anche i liquidi di ricarica aromatizzati, quantomeno finché non venga provato empiricamente che non siano motivo di attrazione per i minori —cioè mai, dato che si tratta di una probatio diabolica. La conseguenza di stigmatizzare le sigarette elettroniche alla pari delle bionde ha già prodotto risultati devastanti: sanzioni per chi le fuma in Brasile, ad Hong Kong il solo possesso costa fino a due anni di galera, fino a tre anni di galera anche in alcune regioni dell’india e sanzioni pure in Giappone, dove sono illegali per i residenti (e limitate per i turisti). In nessuno dei quattro sono vietate le sigarette tradizionali, ad ogni modo. Ma la lista dei Paesi che hanno risposto all’appello dell’OMS con misure draconiane è tragicamente lunga.

Non è particolarmente chiara la ragione dietro a questa strategia (quantomeno all’apparenza) controintuitiva. Ma del resto l’OMS non fa poi più di tanto per rendere trasparenti e chiari i processi decisionali con cui vengono stilate le linee guida che andranno poi ad influenzare i legislatori di tutto il mondo. Quando nel 2016 si tenne a Nuova Delhi la settima sessione della Conference of the Parties, i membri della conferenza decisero di espellere i giornalisti presenti dalla sala, escludendoli dalla parte più importante dei lavori. Il giornalista del Daily Caller Drew Johnson, che aveva deciso di rimanere per una questione di principio, fu addirittura allontanato con l’uso della forza.

Le organizzazioni di medici e di tutela dei consumatori che sono insorti contro le discutibili raccomandazioni dell’OMS sono parecchie. Fred Roeder, magaging director del Consumer Choice Center, ad esempio, aveva sottolineato l’irrazionalità di cercare di combattere il fumo con policy che si sono dimostrate fallimentari, suggerendo all’Organizzazione mondiale della sanità di usare lo stesso approccio scelto per tubercolosi e malattie sessualmente trasmissibili: una strategia di harm reduction -riduzione del danno- che vede per protagoniste proprie le e-cig. “Se l’OMS vuole prendere la salute pubblica seriamente dovrebbero supportare policy che funzionano, e non insistere con vecchi strumenti fallimentari ancora e ancora”, aveva aggiunto intervistato da Today Ambulance.

Quanto ci vorrà prima che i Paesi occidentali, a partire dal nostro, se ne rendano conto? Oggi l’innovazione ci ha fornito uno strumento importante, se ci sta a cuore veramente la salute dei fumatori è il momento di smettere di ostacolarlo — una lotta sterile come quella dell’Italia e dell’OMS potrebbe costare a migliaia di loro un prezzo proibitivo.

 

(immagine di copertina di Sarah Johnson)

TAG: fumo 2.0, oms, Salute, sigarette, sigarette elettroniche
CAT: Sanità

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