Facciamo una scuola difficile

30 Dicembre 2019

Uno studente che provenga dal ceto proletario si trova ad affrontare difficoltà che per lo studente borghese sono difficili anche da immaginare. La più grande, spesso insormontabile, è la differenza culturale: perché la cultura scolastica è la cultura elaborata nei secoli dal ceto nobiliare e poi da quello borghese, una cultura che esprime una visione del mondo che è diversa, diversissima da quella proletaria; una costellazione di valori altra, nella quale lo studente proletario non è a casa. E si trova di fronte a una scelta dolorosissima: abitare quella nuova casa e diventare un estraneo per il suo ambiente o rifugiarsi nel suo ambiente e disertare la nuova, improbabile casa. Spesso è questa seconda, la sua scelta, ed è tra le cause principali della dispersione scolastica. C’è poi la lingua. Il nostro studente proletario ha un codice ristretto, direbbe Basil Bernstein. Ha un codice diverso, direbbe qualche altro. Certo parla una lingua che non è quella scolastica. Un proletario foggiano ha termini estremamente precisi per indicare, che so, l’acqua di cottura della pasta o le briciole di polistirolo, ma non ha un lessico astratto o adatto alla complessità del mondo emotivo e sentimentale (quel mondo che si esprime nella poesia e nella letteratura): nella sua lingua non esiste nemmeno un modo per dire “ti amo”. C’è poi – lo diceva Gramsci, e l’aveva vissuto sulla sua pelle – l’attitudine a quel tipo particolare di fatica che è il lavoro intellettuale, che può essere piacevole e anche gioioso, ma resta un lavoro, e per lo studente proletario è un lavoro strano, diverso dal lavoro di suo padre e di suo nonno.
Queste difficoltà fanno sì che molti studenti proletari si perdano per strada già alla fine della scuola media. Esiste l’obbligo scolastico fino a sedici anni, ma non è infrequente che a causa di molteplici bocciature il nostro proletario giunga a sedici anni senza aver nemmeno finito la scuola media. Mettiamo però che sia volenteroso, ben intenzionato, e voglia riuscire. Cosa deve fare? Semplice: studia! Glielo dicono tutti. Apri il libro e studia! E lui questo fa: apre il libro e studia. Da pagina 5 a pagina 15. Chi gli ha dato quella indicazione immagina che con quella azione – aprire il libro e “studiare” – tutto andrà magicamente a posto. Il lessico, ad esempio, si arricchirà man mano che lo studente procederà nello “studio”. Purtroppo non va sempre così. Spesso succede che il nostro studente impara a fare quello che la scuola vuole che faccia per prendere un buon voto. E se la scuola accetta che lui impari a memoria e ripeta parola per parola da pagina 5 a pagina 15, lui lo fa. E il docente non se la sentirà di mettergli un quattro, perché in fondo “ha studiato”, “si è impegnato”. Lo sa benissimo che non ha imparato nulla. Ma sa anche che, se dovesse preoccuparsi davvero dell’apprendimento dei suoi studenti, il suo lavoro diventerebbe difficilissimo. E scontenterebbe tutti: gli studenti, che dopo aver passato ore sui libri si troverebbero un quattro in pagella, i genitori, il dirigente. E dunque va bene così.
Lo studente prende otto e prosegue. Fa il Liceo, poi l’Università. Agli esami universitari parlerà per dieci minuti di un filosofo, ma non saprà dire se quel filosofo è di destra o di sinistra. Ma andrà bene comunque. E la tesi si sistemerà in qualche modo.
Il nostro studente proletario avrà la laurea e sarà pronto per un mondo del lavoro che, a differenza dei suoi docenti, non avrà alcuna pietà, e metterà il dito nella piaga delle sue molteplici fragilità.
Che fare? Qualcuno dirà che il problema è che il nostro studente non è stato bocciato. Ma come bocciarlo, se ha sempre studiato? Il problema è un altro. Il problema è che la scuola non è attrezzata per superare il gap culturale. Non sa farlo. Molti docenti sono sinceramente convinti che compito della scuola sia favorire l’uguaglianza sociale. E’ una convinzione che nel nostro Paese non si fa progetto condiviso – da noi non esiste qualcosa come Teachers for Social Justice (http://www.teachersforjustice.org) – ma che è innegabilmente condivisa da molti. Ma come favorire l’uguaglianza sociale? Qui i docenti, pur mossi dalle migliori intenzioni, si perdono. Per molti si tratta di fare una scuola più difficile. In fondo non lo diceva Gramsci? Una scuola facile dà ai figli dei poveri un titolo di studio sostanzialmente vuoto, e dunque è classista. Sono tentato di dar loro ragione, ma in un modo che a loro, temo, non piacerà. Fare una scuola più difficile non significa dar da studiare non da pagina 5 a pagina 15, ma da pagina 5 a pagina 25. Il nostro studente proletario non avrà poi grandi difficoltà ad “imparare” dieci pagine in più. Fare una scuola difficile significa studiare in modo diverso. Anzi: significa studiare, e basta. Faremo una scuola più difficile – più seria – quando la smetteremo di accontentarci di una simulazione di apprendimento. Quando fermeremo lo studente che ripete a memoria quello che c’è nel libro e cercheremo di verificare se ha capito davvero quello che ha letto. Ma come potrà aver capito davvero, se non ci saremo fermati con lui a considerare ogni punto, ogni parola, a ragionare, ad approfondire? Una scuola difficile è una scuola lenta, è una scuola profonda. E’ una scuola in cui il numero di pagine diminuisce, ma ogni pagina è una finestra per entrare in un mondo. Ed è una scuola in cui non esistono il docente, lo studente e il manuale, ma c’è una intera comunità che cerca il sapere confrontandosi e considerando le fonti. Una scuola difficile non è una scuola in cui il docente alza l’asticella per far sì che un maggior numero di studenti non riescano a saltarla. Quella è una scuola stronza, e non serve a nessuno. Una scuola difficile è tale in primo luogo per il docente, che dovrà lasciar perdere la cattedra, il manuale, la rassicurante routine della sua professione, e impegnarsi in un lavoro quotidiano di scavo che richiederà tutta la sua cultura, ma anche tutta la sua passione.
Il discorso attuale sulla scuola è uno degli indicatori più tristi del penoso stato del dibattito pubblico nel nostro Paese. Gira intorno a quattro o cinque luoghi comuni, dietro i quali c’è il vuoto. Uno di questi luoghi comuni è che la scuola è stata distrutta perché non si lavora più alle conoscenze, ma alle competenze. Tre falsità in una sola frase. La scuola non è stata distrutta. E’ una istituzione ferita, ma non meno efficace di trent’anni fa. Nella scuola non si lavora per competenze. Il lavoro che trovo nella scuola da docente non è troppo diverso dal lavoro che facevano i miei docenti negli anni Ottanta. Anzi: in una classe mi ritrovo una pedana sotto la cattedra, mentre non ricordo che i miei docenti facessero lezione su un tale penoso baldacchino. Soprattutto, lavorare alle competenze, se qualcuno lo facesse, sarebbe la via d’uscita da una scuola nella quale ci si esercita in una simulazione di apprendimento che si risolve in un terrificante spreco di tempo e di vita per milioni di bambini e ragazzi. E che è la principale causa del persistente classismo della nostra scuola.

antoniovigilante@gmail.com

@spectatornovus

Fonte dell’immagine: Educatori Senza Frontiere onlus, per una pedagogia della strada (https://www.educatorisenzafrontiere.org/).

TAG: scuola
CAT: scuola

14 Commenti

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  1. mariella-tafuto 4 anni fa

    “Nella mia lingua non esiste ‘t’amo’
    non è affidato, il Bene, alle parole
    e qui l’amor si fa
    come da voi si fa un bacio:
    si fa, ma non si dice […] “

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  2. r.maragliano 4 anni fa

    Sì, però attenzione: difficile = serio è un paradosso. Ma probabilmente tutto questo ragionare, qui, è paradossale. La questione di fondo è come rendere complesso il sapere scolastico, e farlo in modo che lo studente, qualunque sia la sua provenienza, sia implicato attivamente in questa complessità. Dunque, come puntare su un apprendimento produttivo ridimensionando fortemente il ruolo dell’apprendimento riproduttivo. Come affrontare complessivamente il rapporto fra vero e falso, facendo contestualizzare le singole conoscenze e non già imponendo l’accettazione passiva che ci siano verità e falsità assolute. Come creare le condizioni perché ci si confronti in maniera dialogica, si interagisca, e non si viva l’acquisizione di sapere come punitivo isolamento dal mondo e dall’altro. Come creare le condizioni per una scuola anfibia, dove la logica testuale interagisca con la logica reticolare. Come come come

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  3. naciketas 4 anni fa

    Le mie proposte – nate da un dialogo con studenti, colleghi, genitori – sono qui: https://alternativascuola.blogspot.com/p/home.html

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  4. massimo.pheraios 4 anni fa

    Da docente, condivido totalmente. Solo, non mi ritrovo nella definizione di “studente proletario”. Se non è il caso aprire la discussione su cosa si possa intendere, oggi, con i termini “proletario” e “proletariato”, forse sarebbe meglio coniare un’altra definizione per questo studente, che a me sembra molto più vicino a uno studente “standard”.

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  5. massimo.pheraios 4 anni fa

    Da docente, condivido totalmente. Solo, non mi ritrovo nella definizione di “studente proletario”. Se non è il caso aprire la discussione su cosa si possa intendere, oggi, con i termini “proletario” e “proletariato”, forse sarebbe meglio coniare un’altra definizione per questo studente, che a me sembra molto più vicino a uno studente “standard”.

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  6. giovanni-talpone 4 anni fa

    Caro Vigilante, come vorrei essere d’accordo con lei. Ma nel suo ragionamento c’è un baco: lei dice “Il nostro studente proletario avrà la laurea e sarà pronto per un mondo del lavoro che, a differenza dei suoi docenti, non avrà alcuna pietà, e metterà il dito nella piaga delle sue molteplici fragilità.” No, c’è una parte del mondo del lavoro in cui questo non avviene, ed è proprio l’assunzione degli insegnanti. Molti di loro sono riusciti a diventarlo con una “simulazione di apprendimento”. Ed è per questo che sono così comprensivi con chi si impegna senza capire nulla e così ostili agli studenti che si accorgono che “qualcosa non torna” e vorrebbero approfondire. Non sono mai stato insegnante, ma mi sono appassionato alla didattica in tempi ahimè lontani, come militante nel Movimento degli Studenti. Comunque, grazie per il suo intervento: c’è molto Gramsci e anche molto don Milani nelle sue parole.

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  7. giovanni-talpone 4 anni fa

    Caro Vigilante, come vorrei essere d’accordo con lei. Ma nel suo ragionamento c’è un baco: lei dice “Il nostro studente proletario avrà la laurea e sarà pronto per un mondo del lavoro che, a differenza dei suoi docenti, non avrà alcuna pietà, e metterà il dito nella piaga delle sue molteplici fragilità.” No, c’è una parte del mondo del lavoro in cui questo non avviene, ed è proprio l’assunzione degli insegnanti. Molti di loro sono riusciti a diventarlo con una “simulazione di apprendimento”. Ed è per questo che sono così comprensivi con chi si impegna senza capire nulla e così ostili agli studenti che si accorgono che “qualcosa non torna” e vorrebbero approfondire. Non sono mai stato insegnante, ma mi sono appassionato alla didattica in tempi ahimè lontani, come militante nel Movimento degli Studenti. Comunque, grazie per il suo intervento: c’è molto Gramsci e anche molto don Milani nelle sue parole.

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  8. enza 4 anni fa

    Non credo che la situazione scolastica – in quanto ad efficacia – attualmente sia peggiore per alcune categoria sociali di studenti. Se per efficace si intende un\'”educazione” che miri principalmente alla conoscenza di sé prima di tutto il resto (o grazie a tutto il resto). Una scuola che sostenga ed incoraggi l’identificazione personale di ciascun alunno, che faccia sbocciare e riconosca i talenti. Insegnanti che possano vedere in ciascun studente, prima ancora che sia manifesta, la meravigliosa promessa che può diventare. Andrebbero formati diversamente e selezionati meglio, gli “educatori”. Perché quello di cui abbiamo urgente bisogno è di un umanità più ricca di senso etico, estetico e critico, e comportamenti – responsabili – conseguenti.

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  9. enza 4 anni fa

    Non credo che la situazione scolastica – in quanto ad efficacia – attualmente sia peggiore per alcune categoria sociali di studenti. Se per efficace si intende un\'”educazione” che miri principalmente alla conoscenza di sé prima di tutto il resto (o meglio, grazie a tutto il resto). Una scuola che sostenga ed incoraggi l’identificazione personale, l’unicità preziosa, di ciascun alunno, che faccia sbocciare e riconosca i talenti. Insegnanti che possano vedere in ciascun giovane, prima ancora che sia manifesta, la meravigliosa promessa che può diventare. Andrebbero formati diversamente e selezionati meglio, gli “educatori”. Perché quello di cui abbiamo urgente bisogno è di un umanità più ricca di senso etico, estetico e costruttivamente critico, e comportamenti – giusti e responsabili – conseguenti.

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  10. dionysos41 4 anni fa

    Spesso succede che il nostro studente impara a fare quello che la scuola vuole che faccia per prendere un buon voto.
    Una scuola difficile è una scuola lenta, è una scuola profonda. E’ una scuola in cui il numero di pagine diminuisce, ma ogni pagina è una finestra per entrare in un mondo. Ed è una scuola in cui non esistono il docente, lo studente e il manuale, ma c’è una intera comunità che cerca il sapere confrontandosi e considerando le fonti.
    Sta tutto qui il nodo.
    Ma mi sembra riduttivo considerare il disagio dello “studente proletario”. Oggi, forse un vero proletariato in Italia non esiste più (ma si è allargato il sottoproletariato). Oggi lo studente senza la cultura della scuola è piccoloborghese. E per amara ironia o contraddizione è piccoloborghese anche la cultura della scuola che non funziona. Cioè: una cultura delle certezze contro la culura dell’argomentazione. La certezza che sapere sia studiare da pagina 5 a èagina 15, senza interrogarsi – argomentare – se le pagine corrispondano a ciò di cui dovrebbero discutere. Nella mia storia di insegnante – ai licei, al conservatorio, all’università – mi sono spesso trovato accanto docenti che dettavano gli appunti da imparare a memoria. I miei allievi restavano spiazzati dal fatto che non adottavo nessun testo obbligato, mi limitavo a sconsigliarne alcuni. Poi doveva trocvare l’argomente di cui si era discusso nel testo da loro scelto. Era già un primo esercizio di discussione delle fonti. Al no, comunque, la difficoltà maggiore è quella linguistica, la più discriminante. Non avevo che un solo consiglio: leggere. leggere leggere leggere. E scrivere. Mangari anche solo il riassunto di ciò che si è letto.

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