In difesa di una ragazza romana

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9 Maggio 2021

Già più di duemila anni fa c’era chi si esercitava nel sostenere una tesi, quand’anche fosse artificiosa o partigiana, e tale modalità di discutere, intrinsecamente inautentica per un certo modo di vedere moralmente le cose, è degenerato entro un termine divenuto dispregiativo in maniera paradigmatica: sofista. Invero l’arte di sostenere retoriche a favore di una tesi è propria degli avvocati (quindi è una competenza), ma anche a scuola si fa largo qualcosa di simile, una tecnica didattica che ha il vantaggio di essere coinvolgente: il dibattito (per motivi che ignoro, questa tecnica viene etichettata con il termine inglese “debate”).

Invero, a mio modesto parere, decentrarsi per vedere le cose da un’altra prospettiva è cosa buona e giusta e questa modalità di pensare, che potremmo chiamare anche “empatia”, aiuta ad anticipare obiezioni attraverso quel dialogo interno che tutti attraversa e che gli ingenui, in passato, confessavano con un “sento le voci” che li trasformava in pazzi. Fortunatamente Franco Basaglia ci ha detto che, “visto da vicino, nessuno è normale” e quindi neppure io lo sono giacché sono disposto a vestire gli scomodi panni dell’avvocato difensore di quella ragazza romana che ha affermato “I miei nonni, se devono morire, morissero” dichiarandosi ella disponibile, di fatto, a barattare la propria “libertà di divertimento” con la vita dei pur cari parenti. “Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati” disse Bertolt Brecht e quindi mi esercito in un piccolo saggio in difesa di questa giovane donna. Valuterà il lettore la bontà delle argomentazioni.

In primis vorrei evocare i dati sui decessi in Italia forniti dall’Istituto Superiore di Sanità dai quali apprendo che l’età mediana di decesso è di 82 anni (significa che ci sono tanti morti di età superiore a 82 anni quanti quelli di età inferiore) e l’età media dei deceduti è di 81 anni. Per gli uomini, l’età mediana è di 80 anni, mentre per le donne è di 85 addirittura. L’età mediana dei deceduti è di trentacinque anni superiore di quella degli infetti, ne consegue che le guarigioni dei cinquantenni (tra i quali il padre della ragazza evocato nel breve dialogo proposto da un canale Mediaset e divenuto virale in rete) è piuttosto comune. Sempre la lettura dei dati mostra come le persone relativamente giovani che non sono più tra noi dopo avere contratto il virus SARS-Cov-2 avevano sostanzialmente patologie pregresse. Mi si perdoni per la sintesi un po’ brutale (i dati sono riportati nella pagina web del sito dell’Istituto Superiore di Sanità già sopra riportata e ciascuno potrà fare gli approfondimenti che qui non sono possibili se non ricopiandola tale e quale), ma da questo possiamo dedurre che siamo stati disonesti nei confronti dei giovani e, probabilmente, abbiamo preso misure eccessive nei loro confronti, allorquando avremmo potuto, e forse dovuto, differenziare le misure restrittive per fasce di età. Non abbiamo chiesto loro il permesso, ma abbiamo semplicemente imposto di rinunciare ai loro quattordici e quindici anni (o venti e ventuno, fa lo stesso), di alienarsi entro quella didattica a distanza che inizialmente è stata ripudiata da un certo sindacalismo conservatore dei lavoratori della scuola, ma che è diventata immediatamente “scuola normale” appena la categoria si è accorta di quanto questa modalità sposasse gli interessi della propria parte. Per non parlare delle profonde ferite inferte all’inclusione scolastica dai DPCM prima, dai DL e dalle Ordinanze Regionali poi, che formalmente dichiaravano che “E’ fatta salva la possibilità di svolgere attività in presenza qualora sia necessario l’uso di laboratori o in ragione di mantenere una relazione educativa che realizzi l’effettiva inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali”, ma che, consentendo la scuola in presenza solo a loro, di fatto hanno ricostruito le classi differenziali.

Non abbiamo spiegato ai giovani che stavamo chiedendo un sacrificio i cui beneficiari non erano loro stessi, ma i loro nonni. Li abbiamo quindi trattati da cretini o, celando le informazioni che ora sono sistematizzate, ma che erano da subito abbastanza evidenti, abbiamo pensato che non meritassero la nostra fiducia. Quali strumenti di elaborazione ha, un giovane d’oggi, su queste tematiche? Come fa, una giovane d’oggi, intervistata per strada in una trasmissione che le promette trenta secondi di notorietà, ad esprimere questi concetti in una finestra temporale tanto ristretta? Probabilmente dicendo quello che ha detto questa ragazza con una sintesi purtroppo infelice.

C’erano altri modi di affrontare la pandemia? A mio modo di vedere, se c’erano andavano illustrati e forse adottati. Se la strada più promettente era quella che abbiamo adottato, occorreva onestà intellettuale e dichiarare le cose per quelle che erano e cercare un’alleanza tra generazioni senza furberie. Se si ha un bisogno, lo si deve dichiarare, non fare finta che il bisogno sia di tutti e imporre così un sacrificio a tutti, peraltro senza neppure un’idea di contropartita.

A mio modesto parere avremmo potuto spostare gli anziani negli entroterra disabitati delle seconde case in campagna e isolare le persone meno anziane con patologie entro il quadro del lavoro agile o assicurando quei vantaggi che andavano riconosciuti per tutelare la loro vita (l’assegno di mantenimento, a casa, per i lavoratori per i quali lo smart working era impossibile). Configurare quindi ecosistemi di isolamento fisico entro i quali tutelare chi era esposto al rischio di morte, lasciando che altrove la vita continuasse, con le precauzioni del caso, ma in modo più normale.

Guardando le condizioni al contorno ed uscendo dal contesto pandemico, occorre anche mettere in evidenza, in particolare nel nostro paese, i vantaggi che la generazione dei nonni di quella ragazza (e dei genitori della mia generazione) si sono riservati a livello di welfare, in particolare pensionistico, attraverso il sistema retributivo. Sui giovani grava un enorme debito pubblico e il sistema dei diritti acquisiti a livello pensionistico sottofinanzia l’occupazione giovanile. I nipoti ottengono welfare assistenziale dai loro nonni, quelli beneficiati da quelli che oggettivamente possiamo chiamare “privilegi”. Non so se è chiara la perversione del sistema. Allorquando si spiega che un pensionamento anticipato del “quota 100” produrrà cinque posti di lavoro per ogni pensionato, ma i fatti dimostrano che è vero l’inverso per motivi molto semplici da spiegare, un giovane cosa deve pensare? Non può che prendere atto di essere stato preso in giro, di essere stato preso proprio per i fondelli, ma questa volta dalla generazione dei boomer che ha cercato di ritagliarsi sprazzi di quei vantaggi che la “piramide demografica” (che, nello specifico, dovremmo chiamare “rombo demografico”) matematicamente gli nega. Il termine “sostenibilità pensionistica” non vale di fronte alle invidie che coviamo per la generazione che è andata in pensione anche a 55 anni, dimenticandosi, tuttavia, che la longevità di allora non era certo quella di oggi. Saccheggiati dagli anziani che godono del sistema retributivo, scippati dai boomer che si ingrassano alle loro spalle con “quota 100”, in quale modo dovrebbe reagire una giovane in tredici secondi di dichiarazione televisiva? Forse con un superficialissimo “morissero”.

E infine parliamo di scuola. In questi giorni i critici sostengono che il curriculum dello studente introdotto con la Legge 107/2015 ed emerso nella forma attuale solo oggi, sia classista. È la scuola ad essere classista nella sua interezza e non sono bastate le Montessori, i Freinet, i Pestalozzi, i Milani, per non parlare dei Bertagna, dei Rivoltella, degli Iosa, dei Canevaro o dei Maragliano (perché ci sono “innovatori” vivi, per fortuna), a riformarla. Siamo fermi alla didattica SSID (Spiego, Studi, Interrogo, Dimentichi), ad un dibattito monopolizzato dagli interessi dei precari e che non lascia alcuno spazio alle analisi di sistema, né alle politiche di rinnovamento (quando questo, persino, consiste nel dare corpo a ciò che è ben noto dalle pedagogie attivistiche da almeno un secolo). No, restiamo incollati alla SSID. Niente cooperative learning, niente service learnig, niente debate, niente integrazioni col territorio, ma solo “ora et labora”. Tutto questo produce divaricazioni sociali entro le quali i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri, anche perché illusi da una liceizzazione che sembra promettere un posto con le gambe sotto la scrivania, ma che inesorabilmente orienta verso lauree deboli e alla disoccupazione. Se guardiamo cosa c’è sotto il tappeto, attraverso prove INVALSI, OCSE-PISA e altre, ci preoccupiamo dei risultati, oppure facciamo spallucce?

Se gli adulti non sono stati in grado di ricostruire e incarnare una pedagogia della scuola che assume personale con meccanismi perversi che non si curano della qualità del personale che le dà vita, se pensiamo che il ciclo del “rapporto di autovalutazione”, il conseguente “piano di miglioramento” e la “rendicontazione sociale” sono un mero tentativo perché la scuola faccia i conti con se stessa, liquidando tutto questo come “adempimento” da ignorare, ebbene, viene davvero la voglia di sperare in “riforme calate dall’alto” perché quelle che sono state pensate per fare evolvere il sistema con le proprie forze sono state espulse per il mantenimento di uno status quo che garantisce solo occupazione purchessia.

Al fine di mostrare che il re è nudo, nell’ambito della scuola dove l’ipocrisia impera, Maurizio Parodi, celebre per la sua battaglia “Basta compiti”, sintetizza magistralmente, su un noto social network, quella che è la scuola attuale:

«SONO UN CATTIVO DIRIGENTE SCOLASTICO (…forse)

perché credo…

  • che la scuola sia al servizio degli studenti e non viceversa, che il “diritto all’apprendimento” sia sovraordinato alla “libertà di insegnamento”
  • che troppo spesso gli studenti non lascino spontaneamente gli studi, ma siano “respinti” da una scuola che promuove chi sia culturalmente, socialmente, economicamente avvantaggiato
  • che la scuola tenda a premiare il supino adeguamento, l’obbedienza indiscriminata, l’asservimento imbelle, lo studio astratto, l’alienazione di bisogni, desideri, sogni
  • che il fallimento scolastico e l’abbandono non siano problemi “privati” dello studente o della sua famiglia (solitamente disagiata, deprivata), ma siano un fallimento della scuola
  • che la scuola aggravi la condizione di chi sia più svantaggiato e che nella scuola potrebbe e dovrebbe trovare una formidabile opportunità di affrancamento, di emancipazione, senza dover patire ulteriori forme di emarginazione
  • che la scuola imponga una malsana, prolungata immobilità alle menti e ai corpi di bambini bisognosi di esprimere gioiosamente la propria naturale vitalità (solitamente punita)
  • che la scuola dovrebbe riconoscere e nutrire le diverse intelligenze di cui ciascuno è variamente dotato, anziché inibirne l’espressione praticando un insegnamento verboso e nozionistico
  • che si possa imparare naturalmente (Freinet) e insegnare indirettamente (Montessori), evitando esercitazioni noiose, estenuanti che procurano sofferenza profonda e suscitano repulsione per lo studio
  • che si debbano valorizzare: il gioco, la collaborazione tra pari, l’iniziativa individuale e del gruppo, la ricerca, quella “vera”, perché sostenuta da motivazioni autentiche, intrinseche, non come nelle squallide “ricerche scolastiche”
  • che a scuola (e non a casa) si debba imparare a imparare, a sviluppare e gestire le proprie risorse e capacità, a usare metodi di studio e di indagine, a progettare per sé e con gli altri
  • che siano insopportabili le urla incessanti di docenti incapaci di coinvolgere e motivare gli studenti, incapaci di relazioni che non siano univoche e autoritarie
  • che non sia tollerabile il clima intimidatorio (minacce, punizioni, provvedimenti disciplinari…) che si respira in moltissime aule, entrando nelle quali manca il respiro
  • che gli istituti comprensivi non siano istituti di contenzione, per bambini e ragazzi “imprigionati” in “celle”, spesso squallide e sovraffollate, senza neppure il conforto dell’ora d’aria concessa nelle carceri ai detenuti
  • che i compiti a casa siano inutili, dannosi, discriminanti: aggravano la condizione di chi sia svantaggiato, procurano stress e odio per la scuola, invadono lo spazio domestico, violano il diritto al riposo, al gioco, alla socialità…
  • che se un bambino piange di dolore, di rabbia o di paura, a causa della scuola, sarebbe meglio che la scuola chiudesse per “lutto pedagogico” e chi vi lavora fosse trasferito laddove il silenzio e l’immobilità (pretesi da bambini che hanno il solo torto di essere vivi) regnano sovrani: i cimiteri».

In conclusione, da quale scuola è uscita questa ragazza? È quella che le sarebbe stata utile a esprimere in maniera più umana e appropriata pensieri e progetti? Oppure l’abbiamo gettata per lustri nella pandemia dell’edonismo pubblicitario, del solipsismo dell’ “è tutto intorno a te”, dell’egoismo del “mors tua, vita mea” che tanto bene coltiviamo con didattiche competitive proprio nella scuola classista che tutti ben conosciamo?

Fabrizio De André, grande poeta che tutti rimpiangiamo per averci lasciato troppo giovane cantò: “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. Mi permetto quindi di chiedere di guardare questa ragazza con maggiore accondiscendenza e di agire sui nostri stessi difetti che ci piace ignorare buttando tutto in caciara quando si discute dei nostri interessi.

TAG:
CAT: scuola, società

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