Formare i docenti: SISS, PAS, TFA e altre amenità
Negli ultimi anni, a partire dal ministro Berlinguer, per arrivare alla “Buona scuola”, passando dalle ministre Moratti e Gelmini, la formazione docenti ha subito molti rimaneggiamenti, ma ancora non ha una chiara struttura (per adesso sembra un mostro metamorfico, che cambia solo in apparenza).
Si è iniziato con le scuole di specializzazione biennali (SISS o, in Lombardia, che si vuole sempre distinguere, SILSIS), poi ci sono stati i TFA e i PAS annuali (poi vi spieghiamo che cosa sarebbero), che in realtà, a causa dei soliti indicibili ritardi ministeriali, negli ultimi tempi durano al massimo tre mesi (ma i PAS sono stati avviati solo una tantum). Come lo so? Sono coordinatore di tirocinio per la classe di concorso A037 (storia e filosofia) e lo sono stato a più riprese in passato.
Ciò che non è mai cambiato è l’approssimazione con cui il ministero, pur progettando bene, realizza concretamente la formazione docenti, non mettendo le Università in condizione di operare in modo adeguato e rimangiandosi continuamente quello che ha approvato il ministro precedente (spesso, nel corso della stessa legislatura).
Il primo progetto, quello della SISS/SILSIS, era biennale. Ciò significa che gli specializzandi avevano due anni di tempo per ambientarsi, formarsi, seguire le lezioni di uno o più docenti accoglienti (si chiamano così gli insegnanti che ospitano nelle loro classi, a mo’ di tutor, gli apprendisti insegnanti) e poi iniziare, nell’ultima fase, a tenere direttamente le sue lezioni, sotto la supervisione del coordinatore (un docente normalmente in distacco parziale all’università) e del docente accogliente (a scuola).
In teoria, secondo il ministro Berlinguer (ma il discorso vale anche per le ministre e i ministri successivi), questo sarebbe dovuto essere l’unico canale di accesso alla carriera di insegnante. Poi, invece, per non scontentare troppo i precari e i sindacati, si è deciso di immettere tutti i docenti, quelli che si erano specializzati e abilitati, e quelli che non avevano né la specializzazione né l’abilitazione tramite concorso, in graduatorie comuni (concedendo qualche punticino in più (a ogni nuova legge, sempre di meno) agli specializzati, benché non cumulabile con il servizio prestato).
Siccome però i precari spesso non avevano abilitazione (ed erano quindi chiaramente discriminati rispetto a chi l’aveva, cioè i “sissini”) si è deciso di concederla a pioggia, prima con esami e corsi appositi e poi istituzionalizzando i Percorsi Abilitanti Speciali (PAS) per chi già insegnava, che così si sarebbe abilitato (dopo aver iniziato a insegnare, anziché prima, come funziona nei paesi civili), senza però fare alcun tirocinio nelle scuole (visto che già insegnava, avrebbe solo dovuto rifare gli esami universitari già sostenuti durante la laurea).
Poi, per aggiungere un’altra sigla, si è inventato il Tirocinio Formativo Attivo, che è il percorso attuale, nel quale si prevede lo stesso percorso delle SISS/SILSIS ma ridotto a un anno (che, con i consueti ritardi del ministero, si riduce a pochi mesi) di corsi e tirocinio.
Il bello di quest’ultimo percorso è che fino a due anni fa non si poteva nemmeno svolgere il tirocinio nella scuola presso la quale si insegna, oggi invece per fortuna sì (purché si insegni in una scuola statale o paritaria, ovviamente).
La buona scuola sembra voler cancellare quella che è stata l’esperienza degli ultimi anni, proponendo lauree abilitanti – così funziona in Germania, dove chi fa ricerca consegue il Magister Artium (che non prevede neanche un’ora di didattica), per poi tentare il dottorato, chi invece vuole insegnare deve ottenere il Lehramt (dove sono previste numerose ore di didattica). Dopo le lauree abilitanti, infine, un anno di prova a scuola, seguito forse un po’ meglio che in passato, quando era una mera formalità.
Questa la storia degli ultimi anni. Ma cosa si impara durante il TFA? E come funziona il tirocinio nelle scuole?
Partiamo dalla prima domanda. In teoria, si impara la didattica, visto che i contenuti disciplinari si sono già imparati con la laurea. La realtà è però spesso diversa (ovviamente, non parlerò qui dell’Università con la quale collaboro, la Statale di Milano).
Esistono lezioni disciplinari, dove i docenti o ricercatori universitari rispiegano esattamente le stesse cose che affrontano nei loro corsi universitari, salvo eccezioni virtuose.
Esistono lezioni di didattica della disciplina, che sono per lo più un oggetto misterioso, perché sono dissociate dai laboratori didattici (tenuti, questi ultimi, da docenti provenienti dalle scuole o dai coordinatori di tirocinio, ma solo a partire da quest’anno) dove invece la tematica dovrebbe essere propriamente didattica (ma sarebbe interessante scoprire qualcosa di più sulle modalità concrete con cui si svolge, magari con un’indagine estesa a un campione adeguato che preveda anche un’analisi dei materiali di lavoro e del tempo effettivamente impiegato a tal fine).
Esistono corsi di scienze dell’educazione, dove spesso non si fa ciò che si sostiene di dover fare a scuola (didattica) ma si presentano slide in powerpoint (se lo facessimo a scuola gli studenti ci chiederebbero le slide per leggerle direttamente, guadagnando tempo, evitando di annoiarsi e di trascrivere tutto).
Infine, esiste il laboratorio di tirocinio, dove le esperienze (spesso traumatiche) degli specializzandi con le classi e i docenti accoglienti sono portate alla luce, discusse, rielaborate.
In tutto questo, si inserisce qualche nozione di base sugli alunni con disabilità (in primis, dislessia) o bisogni educativi speciali (legati a problemi economici, linguistici, sociali ecc.).
Dati i tempi ristretti con cui si deve svolgere il tutto, la maggior parte del percorso si svolge in autoformazione.
Se a questo si aggiunge che uno degli obiettivi più recenti dei vari ministeri, dal progetto ESABAC (rilascio di un doppio diploma italo-francese) alla metodologia CLIL (Content and Language Integrated Learning, cioè apprendimento contestuale di una lingua attraverso l’uso di essa nell’insegnamento disciplinare, per esempio, fisica in inglese), si vede che la figura dell’insegnante (il quale, come sappiamo, deve anche possedere e insegnare il senso critico, cioè insegnare a ragionare e ad argomentare in modo corretto e rispettando il Galateo della discussione), si vede che quanto viene richiesto a un insegnante è moltissimo (oltre alla salute mentale):
– conoscere la propria disciplina in modo approfondito;
– nozioni di pedagogia e didattica;
– competenze metodologiche sempre più diversificate, quando non individualizzate (disabilità e bisogni educativi speciali);
– competenze informatiche non banali;
– competenze in una o più lingue straniere.
Ebbene, la scuola di formazione docenti lo fa? Come dovrebbe trasformarsi (anche qualora diventasse una laurea abilitante) per farlo? Sì, stiamo pensando di elaborare un progetto di riforma.
E ci aspettiamo proposte dai lettori, anche dai tirocinanti. Innanzitutto, però, esperienze concernenti il tirocinio nelle scuole: positive e negative, che ci permettano di riflettere sull’esistente, e di rispondere alla seconda domanda.
Techne Maieutike
21 Commenti
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Sono un tirocinante della classe A037 che sta svolgendo il corso presso l’Università degli Studi di Milano.
La mia esperienza ad oggi è decisamente positiva. Premetto che il mio percorso di formazione è senz’altro anomalo: ho conseguito la laurea in filosofia spinto dal desiderio di cambiare professione, dopo una laurea in legge e un’esperienza decennale di lavoro come legale interno in una banca d’affari. Aver intrapreso alla tenera età di quarant’anni un percorso formativo pensato per un neo-laureato mi consente di esprimere un giudizio decisamente positivo sul percorso di formazione per gli insegnanti, soprattutto se confronto il corso TFA con la formazione post laurea ricevuta nelle mie precedenti esperienze professionali: il praticantato per l’avvocatura ed uno stage formativo presso una banca.
Il praticantato per l’accesso alla professione forense è una sorta di girone dantesco, privo di linee guida e di indirizzo, totalmente rimesso alla “bontà” del titolare dello studio professionale (significativamente chiamato “dominus” in gergo). Passare mesi a fare fotocopie, code in cancelleria ed in tribunale per depositare gli atti è quanto un neo laureato deve attendersi dal suo “tirocinio”. Di formazione in senso tecnico non se ne parla neanche. Qualche fortunato riesce ad ottenere dal suo dominus – per gentile concessione – di ritagliarsi un paio di settimane di studio per la preparazione dell’esame. La maggioranza delle persone prepara l’esame studiando la sera, da solo, senza possibilità di confronto e di approfondimento con colleghi.
Le cose non sono molto diverse per quanto riguarda gli stage aziendali. La mia formazione è consistita in una settimana di studio individuale in cui, in una sorta di scantinato, mi hanno dato alcuni materiali da studiare: un testo di diritto finanziario (“Profili civilistici dei contratti derivati finanziari” di F. Caputo Nassetti) e qualche centinaio di incomprensibili fotocopie in inglese, tratte da un commentario di Common Law. Impiegai qualche giorno prima di rendermi conto che di quel testo erano state fatte le fotocopie con modalità “fronte retro”, ma direttamente dal libro, senza utilizzare delle fotocopie (per cui in pratica avevo a disposizione una pagina sì ed una no del commentario). Dopo una settimana di questo intenso lavoro di formazione, ero senz’altro pronto per partecipare a conference call con legali americani e inglesi insieme ad un collega ormai prossimo alla pensione, che non parlava una parola di inglese, avendo studiato francese e latino.
Racconto questi episodi per sottolineare come il percorso formativo TFA rappresenti, pur con tutti i suoi limiti, una seria opportunità per migliorare la propria professionalità. Abbiamo a disposizione tre preziosissimi strumenti di crescita: l’osservazione diretta in classe, il confronto tra pari e con docenti più esperti nei laboratori, corsi di livello universitario per approfondire la nostra disciplina.
Certamente non mancano criticità e spazi di miglioramento.
I corsi di “didattica della storia” e di “didattica della filosofia” semplicemente non sono corsi di didattica, per cui sarebbe opportuno cambiarne almeno il nome. Non ritengo però inutile o ridondante il dover seguire ancora corsi disciplinari. Continuare a studiare ed approfondire le proprie materie è un elemento essenziale per la formazione di un buon insegnante. Magari sotto il profilo organizzativo si potrebbe ripensare la modalità di gestione di questa parte formativa; ad esempio invece di istituire corsi ad hoc per i tirocinanti, si potrebbe dare loro la possibilità di seguire corsi universitari normali, con un percorso personalizzato per approfondire le proprie lacune o approfondire i propri interessi, dispensandoli dall’obbligo dell’esame finale ed istituendo diverse forme di verifica (penso ad un elaborato scritto, ad esempio). Un discorso a parte merita Il corso di scienza della formazione; è a mio parere molto utile ed importante, in quanto non ho avuto modo di studiare queste materie nei miei corsi di laurea.
Maggiori ore si potrebbero riservare ai laboratori di tirocinio, che hanno un numero di ore decisamente limitato rispetto agli obiettivi che si potrebbero conseguire con questo tipo di strumento. I tutor coordinatori dovrebbero essere in numero decisamente superiore, in modo da poter instaurare un rapporto diretto con i tutor accoglienti e con i singoli tirocinanti. Dovrebbero essere dispensati dalla loro didattica normale in modo da poter dedicare tutto il loro tempo a questo impegnativo compito.
In conclusione non si tratta di stravolgimenti ma di aggiustamenti di tiro e miglioramenti di un’esperienza che a mio avviso, andrebbe mantenuta nelle sua impostazione e valorizzata nei suoi molti aspetti positivi.
Grazie. I suoi suggerimenti (che interpreto nel senso della formazione continua) potrebbero permetterci di migliorare (prendo nota…), visto che io insegno proprio in Statale, ma sono sicuramente indicazioni molto utili per una riforma del TFA. Normalmente, a un coordinatore spettano 15 tirocinanti, che si potrebbero seguire molto bene, ma il Ministero quest’anno ci ha messo un po’ in difficoltà con i numeri.
Troppo spesso la discussione tra noi precari della scuola si ferma al livello dell’interesse e della preoccupazione (più che legittima) per il proprio destino professionale, quantomai a rischio visti i progetti sulla cosiddetta Buona Scuola. Al di là della propaganda governativa infatti, il refrain non cambia da una ventina di anni a questa parte: togliere alla scuola pubblica, per dare a quella privata (e alle spese militari e a tutte le altre priorità, che non includono l’educazione e l’istruzione).
Utile quindi e meritorio qualsiasi contributo che aiuta a volare un po’ più alto e riflette sulla formazione dei docenti (e quindi direttamente anche sul ruolo dell’insegnante e sulle metodologie migliori ed attuali per insegnare). Il caos che si è generato negli ultimi anni dal punto di vista ministeriale-burocratico infatti ha contribuito a far perdere di vista il punto centrale: come si diventa insegnanti? Chi deve e sa insegnare?
Se la necessità di un percorso formativo è ampiamente condivisa, pare invece che le direzioni intraprese siano spesso divergenti. Tra l’altro non bisogna perdere d’occhio la realtà dei fatti: l’ampia maggioranza dei docenti insegna senza avere avuto un percorso formativo specifico, in virtà di una laurea e quindi di una concezione solo nozionistica dell’insegnamento (insegni perché, nella migliore delle ipotesi, sai le cose che hai studiato; ma saprai anche insegnarle e spiegarle ad altri?).
Bene quindi che si sia deciso di provvedere ad una formazione di competenze pedagogiche specifici, male però che si sia organizzato il tutto in maniera poco precisa e molto male che ai docenti formati attraverso questi percorsi, come il TFA (che ha seguito nel primo ciclo lo scrivente), non sia stato riconosciuto nulla, anzi che siano stati penalizzati dalla legislazione e dalla politica. A tutt’oggi chi ha potuto seguire i corsi abilitanti predisposti dal Ministero (che per 5 lunghi anni erano stati interrotti, al fine di esaurire le inesauribili Graduatore ad Esaurimento) non ha potuto nella maggior parte dei casi non solo insegnare, ma neanche essere presa in considerazione per supplenze.
Purtroppo la situazione è tale per cui ci si è ridotti ad una guerra tra poveri interna alla classe precaria della conoscenza, perdendo di vista i punti più generali e comuni delle rivendicazioni.
Nel merito dei percorsi abilitanti, che il collega Gilardoni conosce bene e da dentro, non posso che essere d’accordo sull’inutilità di un insegnamento della pedagogia fatto per via di slide e concezioni della materia spesso libresche e didascaliche. Le università hanno replicato nella maggior parte dei casi i corsi svolti anni fa per la SSIS dagli stessi docenti; i medesimi corsi peraltri che i docenti tenevono negli atenei come corsi monografici, molto spesso.
Senza particolari preoccupazioni didattiche: possono docenti che non conoscono la scuola superiore insegnare come insegnare a dei futuri docenti? Possono tenere corsi su aspetti specifici e settoriali della fenomenologia heideggeriana, per fare un esempio non a caso (abilitato A037), senza porsi il problema che tali contenuti non verranno mai trattati nella scuola superiore?
Purtroppo la lamentatio potrebbe proseguire a lungo (e la conoscenza di tirocinanti del II ciclo TFA non fa che confermare le mie obiezioni), ma essendo incline alla parte piena del bicchiere, devo anche considerare che i tirocini svolti in università e nelle scuole superiori con la supervisione di docenti della scuola secondaria, hanno messo in grado molti abilitandi di entrare e conoscere per la prima volta dal punto di vista della cattedra le scuole superiori. E di riflettere su molti aspetti della professione che spesso non vengono considerati.
Molto necessario quindi che, messi tra parentesi per un momento i legittimi sfoghi esistenziali, si rifletta su queste questioni di carattere didattico-pedagogico.
Frequento il corso di Tirocinio Formativo Attivo per la classe A037 presso la Statale di Milano e avrei voluto iniziare questo mio commento dicendo cosa sono, ma mi sono resa conto di non essere in grado di definirmi. Sono una tirocinante? Non solo. Una studentessa? Come prima, non solo. Tieffina (come sembra ci chiamino negli ambienti burocratici)? Per carità. Di sicuro non sono un’insegnante, visto che sono una tra le più giovani frequentatrici del corso e che ho messo per la prima volta piede nella scuola dall’altra parte della cattedra solo ora, come tirocinante. In questa mancanza di un nome per definirci si può stigmatizzare il disagio che viviamo: siamo in una terra di nessuno, talvolta visti male dagli studenti perché non possediamo alcuna autorità e veniamo avvertiti come presenze estranee alle dinamiche già consolidate, talvolta visti male dagli altri docenti del liceo (tranne qualche eccezione) perché non capiscono chi siamo (sono stata più volte scambiata per studentessa un po’ cresciuta) e cosa stiamo facendo, talvolta infine visti male dai docenti universitari, perché non ci dedichiamo alle nobili elucubrazioni teoretiche ma interrompiamo le loro lezioni per avere qualche nozione di didattica. Andando poi più sullo specifico rispetto a quello che realmente facciamo/dovremmo fare il disagio, personalmente, aumenta. Innanzitutto i corsi di didattica disciplinare (didattica della storia e didattica della filosofia) che frequentiamo sono del tutto ridotti all’aspetto contenutistico – di cui nessuno vuole negare l’importanza – che non dovrebbe però essere l’aspetto predominante in questo contesto formativo. Ci troviamo così con due interi pomeriggi a settimana impegnati da lezioni disciplinari esattamente identiche a quelle che frequentavamo in università, che non ci insegnano quello che dovrebbero insegnarci, cioè spiegare quei determinati contenuti disciplinari a ragazzi di 16-17-18-19 anni. Si arriva al paradosso per cui in alcuni di questi corsi si fanno precisamente gli stessi argomenti su cui siamo stati giudicati per poter accedere a questo elitarissimo corso (abbiamo infatti dovuto superare tre prove per essere ammessi) e sui quali quindi siamo stati considerati preparati da quegli stessi professori. Credo che l’errore stia nel lasciare questi corsi di didattica – che dovrebbero rappresentare uno dei nuclei fondamentali per la nostra formazione – in mano ai docenti universitari, oberati di impegni e non più abituati al contatto con la realtà della scuola superiore. Invece dovrebbero a mio avviso essere individuati, tramite apposito concorso, docenti che abbiano una reale preparazione sul tema della formazione degli insegnanti e specificatamente sulla didattica delle discipline, cosa ben diversa ovviamente rispetto alla disciplina stessa. L’unico momento dove facciamo davvero didattica della materia, dovendoci mettere in gioco in prima persona ed essendo portati a riflettere su cosa significhi insegnare la materia stessa al meglio, sono i laboratori didattici, che si riducono però a sole quindici ore del nostro percorso (quindici per filosofia e quindici per storia): ci ritroviamo così a dover fare a casa tutto il lavoro previsto da questi laboratori, nel tempo libero che in realtà non abbiamo. Credo che volendo ripensare un percorso di TFA andrebbe dedicato molto più spazio a questi laboratori che permettono davvero di riflettere sulle modalità di insegnamento e di lavorare in gruppo, confrontandosi quindi con i colleghi. Maggior peso in questo ripensamento andrebbe sicuramente dato anche ai laboratori di tirocinio, unico spazio nel quale si ha modo di ragionare sulla propria esperienza di tirocinio a scuola condividendola e individuando punti di forza e punti dolenti. Infatti anche in questo caso le ore a esso riservate nel nostro percorso sono pochissime (23) e per lo più concentrate nel mese di maggio, quando l’esperienza di tirocinio volge ormai al termine e il laboratorio non può quindi più rappresentare uno strumento utile per rapportarsi ad esso e al mondo della scuola in generale. Riguardo poi al tirocinio a scuola, come ben sottolineato dall’articolo, un’attività che dovrebbe caratterizzare il percorso e rappresentarne il cuore pulsante si riduce a pochi e risicati mesi, costringendo i più a corse folli per il raggiungimento del monte ore di tirocinio diretto. Per quello che mi riguarda dovrebbe essere l’attività principale in un simile percorso di formazione e dovrebbe durare un anno scolastico intero, così da evitare di piombare nelle classi nel bel mezzo dell’anno, finendo per rappresentare un elemento posticcio di cui non si comprende bene il senso. Inoltre per quanto io mi trovi molto bene con la mia docente accogliente, che mi permette di fare lezione sui temi su cui mi sento più ferrata, che mi coinvolge sia in classe, sia nella redazione e correzione di verifiche e nelle interrogazioni (cosa che a quanto pare non tutti i docenti accoglienti fanno), reputo ugualmente che i docenti che volessero assumere il ruolo di docenti accoglienti dovrebbero aver fatto un percorso formativo che consentisse loro di svolgere questo ruolo nel migliore dei modi, evitando così le disparità più vistose tra colleghi tirocinanti che hanno a che fare con docenti accoglienti davvero volenterosi di formare nuove leve e docenti accoglienti che invece lo fanno solo perché costretti dal preside. Sarebbe opportuno dunque che esistesse un elenco regionale di docenti in possesso di qualifiche per svolgere il ruolo di accogliente e che da queste venisse attinto per assegnare ogni tirocinante a un docente, evitando così la situazione in cui noi ci siamo stati trovati di “caccia al professore” che acconsentisse ad ospitarci, in alcuni casi solo dopo essere stati rimbalzati più volte da altri docenti o da altre scuole. Se penso a un percorso davvero formativo penso quindi a un anno intero di tirocinio in una scuola, affiancato da un docente che sa cosa fare e come rendere il tirocinio produttivo, e a laboratori didattici e di tirocinio svolti, sempre lungo il corso di tutto l’anno, occupando solo due pomeriggi a settimana, in modo da consentire nei restanti giorni sia la frequentazione delle attività scolastiche pomeridiane, sia la preparazione e lo studio di materiale didattico. Rimane ahimè da commentare l’ultima attività che affrontiamo in questo TFA: il corso di Scienze dell’Educazione. Dovrebbe essere un corso importante, ma fatto come è fatto rappresenta la macchietta di se stesso e desta solo imbarazzo. Dopo cinque anni di università (e nel caso di molti colleghi dopo dottorati o anni di insegnamento già alle spalle) ritrovarsi di fronte a una persona che legge banalità scritte sopra misere slides è svilente. Non ho mai frequentato un corso di pedagogia, ma sono sicura che ci possa essere un modo per non farla apparire la scienza della banalità e sono sicura che noi corsisti avremmo bisogno di un corso ben fatto, ma così rappresenta solo un enorme perdita di tempo, che quindi eliminerei se dovessi pensare di rinnovare il percorso del TFA e a renderlo più produttivo. Nonostante questo ritratto così negativo che ho dipinto, credo davvero che ci siano nel TFA spunti buoni da sviluppare, eliminando però in toto i molteplici aspetti negativi. E spero che, pur nei suoi enormi limiti, una volta arrivati alla resa dei conti abbia permesso a chi, come me, si affaccia al mondo della scuola da dietro la cattedra per la prima volta di comprendere come fare per diventare un buon insegnante.
La mia tesi, da studente TFA della classe A037 presso la Statale di Milano, è che il TFA serve più a chi lo organizza, che agli studenti stessi. Infatti, si tratta più che altro di un modo, per le istituzioni coinvolte, di far cassa.
Ci sono molte assurdità nel TFA. 1) Anzitutto, le prove di accesso. Nella prova preliminare si è scoperto che i redattori delle domande a crocette non hanno saputo copiare e trascrivere correttamente da un qualsiasi manuale, tanto è vero che, con uno tra i molti esempi, la guerra dei trent’anni ha subito una traslazione temporale pittoresca. La prova scritta ha lasciato perplessità, non tanto per i contenuti (opinione personale: si è trattato di una prova seria con domande strutturate), ma per le modalità di correzione: infatti, gli oltre 110 partecipanti hanno terminato di rispondere alle 18 domande aperte (concernenti argomenti che coprono oltre 2500 anni di filosofia e oltre 1500 di storia) il mercoledì alle ore 19, e i risultati sono usciti nel primo pomeriggio di venerdì. Certo, i correttori hanno dimostrato straordinaria velocità, efficienza e coordinazione nel correggere.
2) La didattica suscita molte perplessità, a partire dai corsi di filosofia e storia. Infatti, se uno studente è laureato e ha passato un concorso, dovrebbe già conoscere ciò di cui si parla, e pertanto le lezioni sono un pleonasmo. Se non lo conosce, evidentemente il sistema universitario e concorsuale ha fallito, il problema sta a monte, e non si vede come si possa rimediare con queste lezioni.
3) Curiosi appaiono i laboratori di tirocinio, che costituiscono di fatto un pittoresco meta-tirocinio. A me, ingenuo, sembra che l’insegnamento sia un lavoro da svolgere in aula, senza necessità di perdersi in riflessioni metafisiche astratte dal campo di lavoro. Non sarebbe più sensato che i tirocinanti lavorino, gratis, presso l’istituzione scolastica, per 6 mesi o un anno, partecipando sul campo alla vita scolastica? Non sarebbe più sensato che siano i tirocinanti a costituire quell’organico di supporto di cui tanto si parla? Evidentemente no, meglio meta-riflettere.
4) Ancor più curioso sarà il percorso post-abilitazione. Infatti, come in ogni buon sistema statalista, accade che il titolo di studio abbia valore legale; ma accade anche che lo stato dia lavoro a persone non abilitate, e che questi docenti acquisiscano dei vantaggi rispetto agli abilitati pur non essendo passati per quella strada che pure lo stato aveva a suo tempo indicato come indispensabile per intraprendere la professione. A questo punto sorge il quesito: non sarebbe sensato abolire il valore legale del titolo di studio, aprire la strada alla concorrenza tra docenti, e rendere i dirigenti scolastici responsabili per le assunzioni che compiono e per i relativi costi economico-formativi? Ovviamente no, sarebbe una via liberista che nega i diritti dei lavoratori: viva lo statalismo.
Per concludere: ci sono molte ragioni per apprezzare il TFA. Per la precisione, duemilacinquecento ragioni per ogni tirocinante.
Gentile Andrea. Ha ragione. I corsi non sono studiati per offrire competenze agli insegnanti, esattamente come la scuola non è fatta per i discenti. Almeno quella italiana.
La mia tesi, da studente TFA della classe A037 presso la Statale di Milano, è che il TFA serve più a chi lo organizza, che agli studenti stessi. Infatti, si tratta più che altro di un modo, per le istituzioni coinvolte, di far cassa.
Ci sono molte assurdità nel TFA. 1) Anzitutto, le prove di accesso. Nella prova preliminare si è scoperto che i redattori delle domande a crocette non hanno saputo copiare e trascrivere correttamente da un qualsiasi manuale, tanto è vero che, con uno tra i molti esempi, la guerra dei trent’anni ha subito una traslazione temporale pittoresca. La prova scritta ha lasciato perplessità, non tanto per i contenuti (opinione personale: si è trattato di una prova seria con domande strutturate), ma per le modalità di correzione: infatti, gli oltre 110 partecipanti hanno terminato di rispondere alle 18 domande aperte (concernenti argomenti che coprono oltre 2500 anni di filosofia e oltre 1500 di storia) il mercoledì alle ore 19, e i risultati sono usciti nel primo pomeriggio di venerdì. Certo, i correttori hanno dimostrato straordinaria velocità, efficienza e coordinazione nel correggere.
2) La didattica suscita molte perplessità, a partire dai corsi di filosofia e storia. Infatti, se uno studente è laureato e ha passato un concorso, dovrebbe già conoscere ciò di cui si parla, e pertanto le lezioni sono un pleonasmo. Se non lo conosce, evidentemente il sistema universitario e concorsuale ha fallito, il problema sta a monte, e non si vede come si possa rimediare con queste lezioni.
3) Curiosi appaiono i laboratori di tirocinio, che costituiscono di fatto un pittoresco meta-tirocinio. A me, ingenuo, sembra che l’insegnamento sia un lavoro da svolgere in aula, senza necessità di perdersi in riflessioni metafisiche astratte dal campo di lavoro. Non sarebbe più sensato che i tirocinanti lavorino, gratis, presso l’istituzione scolastica, per 6 mesi o un anno, partecipando sul campo alla vita scolastica? Non sarebbe più sensato che siano i tirocinanti a costituire quell’organico di supporto di cui tanto si parla? Evidentemente no, meglio meta-riflettere.
4) Ancor più curioso sarà il percorso post-abilitazione. Infatti, come in ogni buon sistema statalista, accade che il titolo di studio abbia valore legale; ma accade anche che lo stato dia lavoro a persone non abilitate, e che questi docenti acquisiscano dei vantaggi rispetto agli abilitati pur non essendo passati per quella strada che pure lo stato aveva a suo tempo indicato come indispensabile per intraprendere la professione. A questo punto sorge il quesito: non sarebbe sensato abolire il valore legale del titolo di studio, aprire la strada alla concorrenza tra docenti, e rendere i dirigenti scolastici responsabili per le assunzioni che compiono e per i relativi costi economico-formativi? Ovviamente no, sarebbe una via liberista che nega i diritti dei lavoratori: viva lo statalismo.
Per concludere: ci sono molte ragioni per apprezzare il TFA. Per la precisione, duemilacinquecento ragioni per ogni tirocinante.
Sono un tirocinante della classe A037 presso la Statale di Milano. Sono un “idoneo ma non ammesso” del 2012 e ora finalmente sto percorrendo questa via irta verso l’abilitazione. Credo che ci sia del vero in ognuna delle affermazioni dei miei colleghi: l’assurdità della selezione, il costo esorbitante, la formazione di massa teorica a pedagogia, la difficoltà dei tutor a seguire più di venti tirocinanti, i laboratori che in poche ore vengono messi all’angolo… le difficoltà e le perplessità ci accompagnano da anni nel perseguire questo obiettivo e non vorrei essere ripetitivo. Ne aggiungo qualcuna in riferimento alla mia situazione. Io sono al terzo anno di insegnamento in una paritaria, ho cominciato come supplente poichè svolgevo al pomeriggio lo studio “assistito” e poi il Preside ha creduto in me e mi ha ritagliato un monte nonostante il rientro della docente di ruolo. Quindi quest’anno sto svolgendo sia il mio ruolo di docente che di tirocinante e non è facile. Ho cominciato con entusiasmo perchè credevo che mi avrebbe arricchito e reso un docente più preparato, in realtà si sta rivelando un ostacolo alla mia professione. Troppo concentrato in poco tempo, troppe scadenze di esami, lavori da svolgere, lezioni da seguire e la preparazione delle lezioni per la mattina seguente? Io che sono alle prime armi, i pomeriggi sono direttamnete proporzionali alle mattine. Se ho quattro ore di lezione, il pomeriggio prima sono quattro ore di preparazione, approfondimenti, ricerche di materiali, curiosità, testi. Con il tfa tutto questo è scomparso o estremamente ridotto. Speso entro in classe impreparato e improvviso con gli appunti dell’anno prima e le mie lezioni non mi soddisfano, i ragazzi si distraggono spesso e lo percepiscono, come noi percepiamo la loro di impreparazione nelle interrogazioni. Se manchiamo noi al nostro dovere, perchè mai loro lo dovrebbero fare? E’ diseducativo. Sono in grande difficoltà, senza contare i consigli di classe, le tesine di maturità della quinta e altri progetti che seguo per la scuola. Il tfa non dovrebbe integrare la mia preparazione? Perchè invece la ostacola? Questa è la mia prima grande perplessità, ma comprendo che sono un fortunato caso isolato. La seconda riguarda le ore di pedagogia: troppe e inutili. Il rapporto con i ragazzi è una relazione che si costruisce giorno per giorno, con comprensione, attenzione, autorevolezza e impegno; non certo con una riflesione teorica a riguardo. “la realtà è più avanti, siamo sempre indietro” cantava Gaber. La realtà della scuola è da vivere sul campo e la presenza dei tirocinanti comprendo che sia vista con sospetto e invadenza nel bel mezzo dell’anno, dovrebbe essere diluita in un anno, magari con la stessa classe per entrare nelle pieghe umane del dispositivo scuola. La pedagogia pretende di essere una scienza, che per dirsi tale deve avere prevedibilità ed esattezza. Ma nelle relazioni umane sappiamo che non è così. Da un’azione non ne deriva una determinata reazione.
I corsi di didattica sono molto interessanti, anche se sono cose che abbiamo già studiato, ogni volta le trovo nuove e lì mi sento di essere cresciuto e di aver consolidato la mia preparazione. Ma la modalità di verifica è stata decisamente avvilente. Nessun contenuto, solo formalmente come abbiamo stilato una verifica in 40 minuti. Solo forma e niente di più. L’insegnante non è un tecnico del sapere, non è un funzionario d’ufficio e non è nemmeno un burocrate. L’insegnante è una persona che “professa una fede” (profetior= professore) e cerca di lasciare il segno nelle persone che ha di fronte. In questa situazione diventa difficile, ma come ogni fede va messa alla prova. Quando ne usciremo saremo comunque in ogni caso dei docenti pù convinti e motivati.
Bravo.
Sono una tirocinante della classe di concorso A037 presso l’Università degli studi di Milano e dire che sono sconcertata dalle modalità con le quali si sta svolgendo questo TFA è un eufemismo. Dopo mesi e mesi di studio per superare le prove di selezione, nonché una non sottovalutabile retta di 2500 euro, mi aspettavo un corso che mi “insegnasse” a fare l’insegnante, ma il TFA, così come attualmente strutturato, non porta affatto in questa direzione. La mia critica si rivolge sia ai corsi di didattica disciplinare, sia al tirocinio diretto. I corsi di didattica disciplinare non meritano il nome che portano, si tratta infatti di normalissimi corsi monografici, che non insegnano nulla sulle modalità con cui costruire una lezione; il tirocinio diretto invece può essere definito una corsa contro il tempo, un assurdo tentativo di accumulare 200 ore in circa 3 mesi di lezioni. Per quanto riguarda invece l’atteggiamento della mia tutor accogliente non posso assolutamente lamentarmi, fin da subito si è dimostrata disponibile, mi coinvolge durante le spiegazioni e mi sprona a fare lezione sugli argomenti che più mi interessano. Nonostante queste critiche, il TFA ha anche dei pregi, che è giusto sottolineare. Ritengo davvero utili i laboratori di tirocinio, che permettono a noi tirocinanti di confrontarci sulle rispettive esperienze scolastiche arricchendoci vicendevolmente; purtroppo però le ore dedicate a questi laboratori sono davvero esigue, solo quattro incontri da cinque ore ciascuno. Stesso discorso per il corso di Scienze dell’educazione, che, pur essendo fondamentale per la formazione di un bravo insegnante, è profondamente sacrificato nell’economia generale del percorso di studi. Detto questo, penso che per migliorare il TFA bisognerebbe attuare le seguenti strategie:
1) trasformare i corsi di didattica disciplinare in quello che dichiarano di essere, non ci serve ristudiare le stesse nozioni che già abbiamo dimostrato di possedere durante le selezioni, ci servono gli strumenti per poterle trasmettere agli studenti;
2) far partire il tirocinio diretto nei mesi di settembre/ottobre, solo così, svolgendosi sul lungo periodo, potrà veramente essere proficuo;
3)aumentare le ore destinate ai laboratori di tirocinio, sono infatti le uniche occasioni in cui è possibile riflettere criticamente coi colleghi sulle proprie esperienze di tirocinio;
4)dare maggiore importanza ai corsi di Scienze dell’educazione, è infatti l’unica disciplina nella quale nessuno di noi ha delle competenze, eppure è quella meno valorizzata.
Seguendo queste linee credo davvero che il TFA potrebbe essere migliore e assolvere il compito che dichiara di voler svolgere: formare dei bravi insegnanti!
Sono una tirocinante della classe di concorso A037, storia e filosofia. Desidero riprendere ed integrare i punti di criticità sottolineati dagli autori degli altri post. Parto dai corsi disciplinari in Università, su cui a mio parere si condensano i problemi. Non è per nulla chiara la loro vocazione : farci acquisire dei contenuti o la capacità di trasmetterli ai nostri futuri studenti? Dai docenti degli stessi corsi sono arrivati dei messaggi contrastanti a riguardo : alcuni hanno sottolineato nel corso dell’esposizione le implicazioni didattiche di questo o quell’argomento, con un evidente sforzo di adeguarsi alla vocazione didattica che questi corsi dovrebbero avere ; altri, poco convinti che in sole tre lezioni si possano realmente trasmettere delle competenze didattiche, ci hanno fatto capire che questi corsi sono, nella migliore delle ipotesi, delle occasioni per approfondire temi o autori che a loro stanno a cuore. Non mi sembra che ci sia un progetto armonico e condiviso fra gli stessi docenti su cosa sia e a cosa serva il Tfa, risulta quindi difficile per noi tirocinanti farci un’idea di cosa stiamo facendo, visto che le stesse istituzioni accademiche, nelle persone dei loro rappresentanti, non hanno le idee chiare. Da segnalare, a questo proposito, la dissimmetria fra le prove di filosofia e quelle di storia : mentre nel caso degli esami di filosofia la prova è consistita nel congegnare una verifica scritta sugli argomenti trattati durante il corso, gli esami di storia ( che dobbiamo ancora dare) consisteranno in domande aperte sugli argomenti trattati…saranno in altri termini una replica dell’esame di ammissione al TFA. Avverto un sentimento di frustrazione ed inutilità per queste continue ripetizioni, che tolgono tempo prezioso per altre attività, come una seria preparazione delle lezioni. Nel migliore dei casi, ovvero quello in cui si è fatto uno sforzo per adeguare i corsi disciplinari ad un obiettivo didattico, il tempo è stato comunque troppo limitato perché ci venissero effettivamente insegnate delle tecniche didattiche con la possibilità di testarle in contesti non di esame, come puro esercizio di apprendimento. Lo stesso discorso vale per i laboratori di didattica. Per quanto il modo in cui sono organizzati ( lavori di gruppo, discussioni aperte) sia soddisfacente, anche in questo caso per alcune attività saremo immediatamente valutati, con voto che farà media, su abilità e compiti che ( almeno nel mio caso) non ho mai concretamente affrontato. Anche in questo caso, credo che tutto dipenda dal fatto che non c’è tempo, ogni attività deve essere immediatamente convertita in un voto per poter arrivare alla fine del programma del TFA. Ma – mi chiedo – si fa un gran parlare di didattica come contenuto del TFA, ma sono “didattiche” le forme e le modalità con cui noi tirocinanti veniamo avvicinati – direi gettati – alla nostra professione ? Per quanto riguarda il tirocinio a scuola, non ho personalmente avvertito forme di discriminazione, commiserazione o sentimenti negativi nei miei confronti, né da parte dei docenti, né da parte degli studenti. Concordo però anche io con uno dei post, sul fatto che un conto sono le buone intenzioni, un conto è saperle mettere in pratica. Spesso le difficoltà vengono non dalla mancanza di volontà del docente accogliente, o da una disposizione negativa nei nostri confronti, ma dal fatto che lo stesso docente accogliente non è stato formato o guidato al ruolo che si trova a compiere. Forse una selezione per il ruolo di docente accogliente è troppo, ma un albo regionale dei docenti che si rendono formalmente disponibili a seguire i tirocinanti ed un corso di formazione per accedervi sarebbero opportuni. Per quanto riguarda i corsi di scienze dell’educazione, cito interamente le osservazioni del post di giovidri, aggiungo anche che a volte ho la spiacevole sensazione che questo corso serva, più che a trasmettere delle conoscenze, ad illustrare, e a volte a giustificare, le scelte di politica scolastica che sono state fatte in questi ultimi anni. Non mi addentro sulla bontà di tali scelte, credo però che sarebbe più utile approfondire meglio i contenuti pedagogici, visto il carattere ondivago ed effimero della politica scolastica italiana, nel bene e nel male. Fatti nel modo che già sappiamo – per slide che potrei tranquillamente leggermi da casa – questi corsi sono deludenti. Se dovessi fare un bilancio del tfa manterrei l’esperienza dei laboratori didattici e di tirocinio, cui si dovrebbe dare lo spazio di un incontro a settimana, e sicuramente il tirocinio a scuola. Se si vuole dare spazio alla scienza dell’educazione ben venga, ma con corsi seri, ai quali si assista con la convinzione che non si poteva non assistere in presenza. A tutte le attività andrebbe però assegnato l’intero anno scolastico e non tre mesi risicati. Ne va della credibilità e della spendibilità del nostro titolo di TFA. Che direi ci è costato e ci sta costando caro.
Sono un tirocinante TFA per la classe A037 presso l’Università degli Studi di Milano. Condivido molti dei pareri espressi riguardo all’organizzazione e alla struttura di questo corso, in particolar modo quelli riguardanti i presunti corsi di didattica e di scienze dell’educazione, per cui non penso sia utile ripetere quanto già detto. Anche i laboratori di didattica, che potenzialmente sarebbero la cosa più utile al fine della formazione dei futuri docenti (eccezion fatta per il tirocinio diretto a scuola ovviamente), risultano fortemente penalizzati dalla scarsezza di ore loro dedicate. Il problema di fondo sta nel modo stesso in cui l’intero TFA è stato concepito, oltre che alla scarsa organizzazione colla quale questo ciclo particolare si sta svolgendo.
Innanzitutto le tempistiche: non è possibile immaginare che qualcuno possa svolgere un sereno e proficuo tirocinio in un istituto se la sua preoccupazione principale consiste nel trovare il modo di riuscire a completare il monte ore richiesto e allo stesso tempo svolgere in maniera soddisfacente tutte le varie attività e i numerosi compiti assegnatili al di fuori della scuola. Il monte ore per il tirocinio diretto, e anche per quello indiretto, è stato infatti calcolato per un percorso dalla durata di poco meno di un anno scolastico circa, da novembre a giugno, mentre per varie problematiche questo ciclo è riuscito a partire solamente a gennaio inoltrato con i corsi universitari, mentre il tirocinio nelle scuole è potuto cominciare solo alla fine di febbraio; ma il monte ore, alla luce di tutto ciò, è rimasto invariato. Nell’arco di due o tre mesi il tirocinante si vede quindi costretto a svolgere tutte le attività che il suo percorso richiede, dovendosi concentrare più sul riuscire a fare tutto nel minor tempo possibile che ad imparare ad insegnare e a svolgere con profitto le proprie attività. A tutto ciò si aggiunge il tempo che si deve impiegare per preparare gli esami di corsi monografici e nozionisti la cui utilità al fine della formazione di un docente è già stata ben evidenziata dai miei colleghi. Tutto ciò riduce il TFA ad una corsa contro il tempo in cui della formazione dei futuri insegnanti rimane ben poco. Inoltre, come già è stato detto da altri, ritrovarsi gettati in una classe nel bel mezzo dell’anno scolastico sicuramente non aiuta l’inserimento del tirocinante ed ostacola le sue attività.
Detto questo pare ovvio e scontato che il percorso formativo dei futuri docenti debba essere ripensato; il problema consiste però nel riuscire a pensare a qualcosa che sia concretamente realizzabile. Riguardo al corso di scienze dell’educazione, ad esempio, lo scarso numero di docenti potrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile in vista di una nuova riorganizzazione, anche se forse sarebbe comunque possibile, e auspicabile, un ripensamento sugli argomenti e sulle modalità di lezione.
I presunti corsi di didattica a mio parere andrebbero invece completamente cancellati. Tutti i tirocinanti hanno infatti già dimostrato a sufficienza, tramite il concorso, la loro preparazione sulle materie, per cui sarebbe forse opportuno sostituire questi corsi nozionistici con ore di laboratorio di didattica, che arriverebbe così ad aumentare il proprio monte ore arrivando così a costituire veramente il più valido mezzo per preparare gli aspiranti insegnanti alla professione, tramite il confronto con docenti esperti e qualificati e la sperimentazione di attività e compiti che in futuro caratterizzeranno il lavoro quotidiano dei tirocinanti.
Maggiore importanza dovrebbero inoltre assumere le attività da svolgere all’interno della scuola, in modo tale da costruire un percorso di formazione che ruoti attorno ad esse. Sarebbe infatti auspicabile un tirocinio che si svolgesse durante l’intero arco dell’anno scolastico, in modo da favorire una stretta e proficua collaborazione tra il docente accogliente e il tirocinante, che così non si limiterebbe ad assistere a lezioni e a partecipare parzialmente all’attività didattica, ma si inserirebbe a pieno nelle classi e nelle attività scolastiche, non solo imparando tutto ciò in cui consiste l’attività dell’insegnamento, ma divenendo anche un’importante risorsa per i docenti stessi al fine della didattica, collaborando con il docente e costruendo assieme a lui unità didattiche e programmi sperimentando, dove fosse possibile, quanto appreso durante i laboratori di didattica e verificandone l’efficacia e l’impatto sugli studenti stessi.
Anche io sono una tirocinante TFA, scrivendo in seguito ad una serie di commenti come questa è davvero difficile non ripetere concetti già emersi con chiarezza ed efficacia. Il TFA si propone di formare noi futuri docenti, allora la domanda che sorge spontantea è “è possibile insegnare a insegnare?” Dalla risposta a questo quesito preliminare dipende la legittimità o meno di un percorso di formazione di questo genere. Spesso mi sono chiesta: l’insegnamento non è forse una delle professioni che richiede prima di tutto una capacità del tutto personale, umana ed empatica di interagire con i ragazzi che può venire supportata e rinforzata semplicemente dall’esperienza sul campo? È davvero possibile imparare a insegnare? L’esperienza che ho maturato in qualche anno di insegnamento mi fa credere che non sia un mestiere tecnico ed asettico che richiede unicamente competenze e preparazione. Sono convinta che la sua buona riuscita dipenda molto anche dal carattere che si ha o si sviluppa, dal proprio apporto umano. Questo porterebbe a pensare come inutile un qualsivoglia percorso di formazione in questo senso, ma non credo che questa sia la soluzione migliore. La formazione continua in cui l’essere umano può e dovrebbe trovarsi, non fa che accrescere la sua comprensione di ciò che lo circonda e la consapevolezza dei suoi limiti e delle sue potenzialità. Quindi: un grande sì alla formazione, ma come dovrebbe essere?
Considerando che molti di coloro che frequentano questo genere di corsi sono lavoratori, il primo aspetto di cui mi occuperei se dovessi progettare un corso di formazione per insegnanti è quello della flessibilità in modo da non costringere i tirocinanti a abbandonare il loro impiego. Potenzierei le lezioni a distanza e on-line, ci vantiamo di essere così tecnologici ma siamo ancora lontani dall’utilizzare la tecnologia per semplificarci a vita. Va considerato inotre che sono molti i tirocinanti fuori sede e che l’avanti e indietro delirante per dover “fare presenza” rischia di attentare gravemente alla salute. Questo per quanto riguarda gli aspetti meramente organizzativi.
Dal punto di vista della didattica proporrei un vero corso abilitante (significa che rende abili no?!) che si componga di incontri-simulazione di situazioni di classe, di lezioni che non diano ai tirocinanti un bagaglio teorico di informazioni ma che insegnino davvero a insegnare la propria materia ad un uditorio di adolescenti. Non va dimenticato che noi ci troviamo a spiegare concetti più o meno complessi di fronte ad un pubblico di giovani ragazzi di cui va attirata l’attenzione, stimolato l’interesse e a cui bisogna rendere chiare e intelleggibili le spiegazioni. Finché il TFA si ostinerà a proporre corsi “didattici” tenuti da docenti universitari, per quanto stimolanti non saranno mai davvero utili a livello di insegnamento superiore. Credo che le lezioni di didattica della materia debbano essere tenute da insegnanti delle superiori che si concentrino sulla condivisione di strategie e metodi per lavorare in un ambiente che è molto diverso da quello universitario.
Secondo me, inotre, sarebbe interessante e formativo prevedere degli incontri in cui partecipano tirocinanti, formatori e anche alcuni studenti (che potrebbero ottenere crediti formativi) in modo che le strategie possano essere messe in atto realmente e gli studenti possano essere una risorsa utile per dare al tirocinante un feed back sulla chiarezza delle sue spiegazioni e sulla sua capacità di suscitare interesse.
Per quanto riguarda il momento del tirocinio in classe, penso possa essere utile ma debba essere strutturato in modo più efficace e “sereno”. Sembrerà curioso l’utilizzo di questo aggettivo, ma integrare 200 ore di tirocinio obbligatorio in classe più altrettante di indiretto con una situazione lavorativa e in generale con la propria vita, non è proprio una passeggiata. Una nota positiva è il fatto che, come ricordava il Professor Gilardoni, da quest’anno si accetta come tirocinio il servizio prestato in scuole statali e paritarie. Aggiungerei però: e quelle non paritarie? Non si tratta forse di insegnamento anche lì? I passi da fare sono molti. A cominciare dal monte ore. In Italia dobbiamo essere realistici, dobbiamo fare i conti con il fatto che, per svariati motivi, le cose non vanno mai come devono andare: il bando del TFA prevede un totale di 475 ore di tirocinio che è impensabile considerando che in due anni di esperimenti i corsi non sono mai cominciati prima di fine gennaio e la possibilità di entrare in classe quasi a marzo. Va pensato un percorso più diluito nel tempo, meno concitato che permetta ai tirocinanti di formarsi con agio, serietà e serenità, non con l’ansia di dover “totalizzare ore”.
Ciò detto, trovandoci in ballo, balliamo, nonostante la musica sia talvolta un po’ troppo frenetica.
Sono anch’io una tirocinante A037 dell’Università degli Studi di Milano e, come molti miei colleghi, sono piuttosto delusa dal TFA. Questa esperienza, infatti, si sta rivelando decisamente al di sotto delle mie aspettative e – a meno di colpi di scena dell’ultimo minuto – rappresenterà un’occasione sprecata di formazione seria per noi futuri (si spera) docenti. Condivido la denuncia che emerge sia dall’articolo sia dai commenti riguardo all’approssimazione del MIUR e in generale dell’apparato organizzativo: i processi di selezione sono stati gestiti con poca serietà e il percorso vero e proprio presenta i numerosi problemi e falle, che i miei compagni hanno bene messo in luce nei commenti precedenti.
Credo che l’istituzione di una laurea specialistica abilitante sia la soluzione migliore per formare gli aspiranti docenti, che in questo modo non perderebbero due anni a ripetere gli esami della triennale senza acquisire nuove competenze. Si avrebbe comunque la triennale per cimentarsi negli esami più disparati (penso ai vari ambiti a cui può aprire la filosofia: logica, ermeneutica, estetica, scienza…) e capire qual è il campo che più interessa; ma, una volta scelto di voler diventare insegnanti, si potrebbe subito intraprendere un percorso abilitante. Chiaramente l’accesso a questa seconda laurea dovrebbe essere regolamentato e a numero chiuso, come del resto già avviene per il TFA; si tratta però di istituire un processo di selezione serio (consiglierei, per esempio, di rivedere gli accordi con Cineca, dati gli exploit poco felici dell’ultima collaborazione). Una laurea abilitante dovrebbe fornire gli strumenti per acquisire le conoscenze e le competenze a cui si fa riferimento nell’articolo, e quindi dovrebbe prevedere:
– esami disciplinari, tenuti da docenti universitari – nel caso della mia classe di concorso, le varie “storia della filosofia” e “storia” (antica, medievale, moderna, contemporanea). Questi corsi, infatti, pur essendo fondamentali, non sono obbligatori alla triennale e con le attuali disposizioni è possibile accedere al TFA anche senza averli seguiti tutti: è sufficiente avere un certo numero di crediti in esami dello stesso settore disciplinare;
– laboratori didattici, tenuti da docenti di scuole superiori. Già previsti dal TFA, sono strumenti molto utili ma purtroppo sacrificati a vantaggio di esami solo nominalmente di didattica. Questi laboratori andrebbero valorizzati con un numero di ore più adeguato, in quanto permettono di riflettere sulla didattica, imparare “l’arte del mestiere” e le strategie, confrontarsi e soprattutto non perdere il contatto con la realtà con cui si avrà veramente a che fare;
– esame e annesso laboratorio di pedagogia/scienze dell’educazione. Nella mia carriera universitaria non ho mai fatto esami del genere, ma è facile rendersi conto che la lettura di slide di powerpoint a cui questa disciplina è ridotta durante il TFA è una pratica del tutto sterile. Nozioni di pedagogia sono indispensabili per un insegnante, per esempio in merito ai BES (prima del TFA non avevo idea di cosa fossero), ma ancora più utile sarebbe provare ad applicare le conoscenze acquisite, analizzando casi particolari concreti e discutendo su soluzioni e comportamenti pratici;
– laboratori informatici e linguistici, finalizzati anche alla conoscenza e all’approfondimento di nuove metodologie di insegnamento (ad esempio l’uso della LIM e la metodologia CLIL);
– tirocinio diretto a scuola. Si tratta dell’attività più utile in assoluto per un aspirante insegnante, a cui si potrebbe pensare di dedicare l’intero secondo anno di specialistica, assieme a momenti di riflessione e confronto (vedi punto seguente). Con il tirocinio a scuola per la prima volta ci si cimenta come insegnanti, dapprima assistendo alle lezioni del docente accogliente e ambientandosi nella classe e a scuola, per poi mettersi in gioco in prima persona (tenendo lezioni, elaborando verifiche, partecipando a riunioni e consigli…) e contribuire attivamente all’organizzazione della didattica. Un discorso a parte va fatto nel caso in cui si avesse la fortuna di insegnare già, come molti dei miei colleghi di TFA, in scuole paritarie o private: in questi casi, non vedo perché la propria esperienza lavorativa non possa sostituire il tirocinio diretto, o comunque costituirne parte integrante. Andrebbe inoltre istituito a livello regionale un elenco di scuole e di docenti che si rendono disponibili come accoglienti, in modo da evitare casi di docenti impreparati ad accogliere i tirocinanti o addirittura infastiditi da una presenza estranea in classe. Si potrebbe pensare anche a una modalità per valutare questo servizio, così da riconoscere e gratificare chi si impegna e dà un contributo importante alla formazione del tirocinante;
– laboratori di tirocinio divisi in gruppi, coordinati da un tutor proveniente dalle scuole superiori, per seguire di pari passo le attività svolte a scuola durante l’esperienza di tirocinio;
– la stesura di una relazione finale, sotto la supervisione del tutor, in cui affrontare un tema incluso negli OSA dal punto di vista non puramente disciplinare, ma della didattica, mettendo così in luce quanto si è imparato durante il proprio tirocinio.
Quello di quest’anno è il secondo ciclo di TFA e rispetto a quello precedente ci sono stati alcuni effettivi miglioramenti (per esempio, sono stati indicati gli argomenti da preparare per le prove selettive). Ma molte di più sono le criticità e, anzi, spesso si tratta delle stesse emerse con il primo ciclo di TFA – come l’inaccettabile ritardo dell’inizio dei corsi o la disorganizzazione relativa all’avvio del tirocinio diretto. Per questo credo che non basti cercare di aggiustare alcuni aspetti, ma sia necessario un radicale ripensamento del percorso per l’abilitazione, a partire dalle riflessioni dei malcapitati che ne stanno facendo le spese.