Musica
Filippo Poderini ed il suo urlo ‘sussurrato’: “L”
Il nuovo singolo del cantautore uscito il 18 settembre: l’intervista
Lo scorso ì 18 settembre è uscito “L”, il nuovo singolo di Filippo Poderini. Un tuffo in una mente afflitta, quasi un dialogo tra i pensieri come si scontrassero rimpianti e sensi di colpa con la coscienza che noi non c’entriamo niente. A volte certe situazioni capitano anche quando facciamo del nostro meglio. “L” è un urlo, uno sfogo, sussurrato in modo tenue. Una voce che analizza il tormento che ci disturba togliendoci il peso di dosso. Filippo Poderini in ogni suo brano riesce a raccontarsi senza raccontare, per lasciare spazio all’ascoltatore. Non importa come sia nata “L”, importa quello che dice al tuo cuore. In questa intervista, l’artista racconta il brano analizzandone il testo e i sentimenti che lo hanno portato a comporre la canzone.
“L” è definito come un urlo sussurrato, uno sfogo tenue ma intenso. In che modo sei riuscito a trasmettere questa tensione emotiva nel suono e nell’arrangiamento del brano?
Mettendomi a due metri dal microfono, urlando e riverberando. E sotto non c’è niente, a parte un sub. Lo spazio tra la voce e quel beat è lo spazio (liminale) dove quella tensione può vibrare.
Parli di una voce che analizza il tormento e allo stesso tempo solleva dal peso. Come convivono, per te, il dolore e la liberazione nella scrittura musicale?
Nello sviluppo di un pensiero e nello scriverlo ci sono degli “strappi” nell’emozione principale del brano. In quegli strappi si può trovare il respiro, che prende forma in una considerazione che allude a un lieto fine, una luce tenue in fondo. La liberazione, secondo me, c’è sempre. Può essere più o meno distante, così come può esserlo la capacità di accettare cosa costerebbe quella liberazione.
Hai detto che non importa come sia nata “L”, ma ciò che dice al cuore dell’ascoltatore. Pensi che oggi l’artista debba lasciare spazio all’interpretazione più che raccontare in modo diretto?
Secondo me l’artista racconta qualcosa di diretto, con la capacità di lasciare (altro) spazio all’interpretazione. Nel mio caso, anche nell’approccio ai video, adoro glitch e sfocature, perché credo che ogni dettaglio poco chiaro sia una richiesta di attenzione ulteriore verso chi ti ascolta o ti guarda, e una possibilità di ampliamento del proprio punto di vista, chiamando in causa l’immaginazione. L’opera è volutamente incompleta, perché ci devi mettere qualcosa tu (che ascolti, vedi) per renderla perfetta. Ed è proprio quel po’ di attenzione in più che viene richiesto prima.
C’è un riferimento ritmico interessante nel brano: l’uso delle quintine, lo “swag” come swing moderno. Quanto la tua formazione jazz ha influenzato questa scelta stilistica?
Il jazz, la capacità di analisi che ne ho ricavato, mi permette di chiarirmi meglio alcune scelte in fase di arrangiamento. A livello di gusto e ispirazione, però, non è tra le mie influenze maggiori. Sono una sorta di punk un po’ nerd, con il pallino per l’armonia e la tecnica, ma sono più robe di studio che di creazione artistica. Lo swag è un dettaglio interessante, perché permette una divisione del tempo inusuale, spigolosa, ingannevole. Crea possibilità ulteriori nello sviluppo del flow della voce.
Nel ritornello si arriva a una cantilena di perdono. Verso chi è rivolto, se c’è un destinatario? E che ruolo ha il perdono nel tuo percorso artistico e umano?
Sì, c’è un destinatario preciso, che non ne è neppure a conoscenza. È un brano dedicato a chi ha subito problematiche familiari legate alla separazione e all’abbandono, a quando ti viene quasi da pensare che sia stat* tu la causa, che ti meriti quel dolore. Il perdono ha un ruolo fondamentale: è l’unico modo per conoscersi, è la scintilla dell’accettazione.
Dopo anni dietro le quinte come producer, hai scelto di portare fuori la tua voce. Cosa ha acceso questa esigenza e come hai affrontato il passaggio da “artigiano del suono” a protagonista?
In realtà compongo sempre e da sempre, quindi è stato più un ritorno che un passaggio. Però, dopo tanto lavoro conto terzi, ho sviluppato una maggiore attenzione verso i miei gusti e la mia abilità nello scegliere, che poi è comunque un processo in itinere. Sicché mi è venuta voglia di trattarmi come uno dei miei clienti;)
Hai detto: “Alla soglia dei 40, forse non mi importa più”. Cosa rappresenta oggi per te la libertà artistica, e cosa diresti al Filippo di dieci anni fa che stava ancora nell’ombra?
Gli direi che stava facendo la cosa giusta e di stare più tranquillo, perché stava facendo bene. E te lo dico pochi giorni dopo averla oltrepassata, quella soglia. La libertà artistica è quella cosa che ottieni quando il tuo bagaglio emotivo, culturale e tecnico converge istantaneamente nel momento in cui ti chiami in causa come creatore. È un gesto coordinato della mente logica e della mente emotiva, che secondo me raggiunge la perfezione quando trova un pubblico al quale raccontarsi. Quindi grazie di diffondermi:)
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