Costume
La vita è un paradiso di bugie
Lo slogan nella comunicazione moderna e l’impoverimento della lingua
Che bello lo slogan. Scritto da altri per te senza necessità che tu pensi. È proprio ciò che ci vuole per la pigrizia dei tempi moderni. Un pensiero concentrato in poche parole, un pensiero liofilizzato, potremmo dire. Solo che se si reidrata codesto pensiero, nella maggior parte dei casi, si corre il rischio che si disfi perché tenuto insieme da troppo poco materiale. E si riveli per ciò che è, inconsistente.
Lo slogan è utile per vendere e la nostra epoca è proprio quella adatta per gli slogan, si vende e si compra di tutto, anche sé stessi, anche il proprio corpo.
Falqui, basta la parola! E Tino Scotti (sempre per mostrare come io sia un’anticaglia, si parla del 1958) alla fine dello spot pubblicitario di un confetto lassativo alla prugna, restava famoso per questo, mentre era un attore comico di grande levatura. Questo slogan fu un prodotto del grandissimo e geniale comunicatore Marcello Marchesi, perché in televisione, allora, non si poteva assolutamente menzionare la parola lassativo, era sconveniente, si poteva scrivere ma non pronunciare. Meno che mai era appropriato parlare di problemi intestinali. Ma era, appunto, il 1958 e la televisione aveva solo un canale. Lo spot, che oggi sarebbe considerato un lungometraggio, si basava sul professor Sotutto, interpretato da Tino Scotti, che spiegava il significato delle parole nella lingua italiana. Per il confetto Falqui, quindi, bastava la parola.
Altri tempi, quelli in cui perfino la pubblicità in televisione aveva una funzione educativa, oggi diremmo culturale, visto il livello agghiacciante delle pubblicità moderne.
Oggi abbiamo Elisabetta Canalis che, dopo aver bevuto un sorso di tè freddo San Benedetto, in un impeto di condivisione col mondo spiaggiato, prende un megafono, forse quello del bagnino, e sulla spiaggia roven-the attira tutti al bar ammiccando: “Giornata bollen-the? Qualcosa di rinfrescan-the? Eccetera” e, probabilmen-the, anche lei come Tino Scotti, sarà ricordata unicamen-the per il tè San Benedetto anche perché non è che abbia lasciato interpretazioni indimenticabili, come attrice. Comunque, certo, è molto decorativa e in costume da bagno fa la sua figura e, sicuramen-the, per quello è stata chiamata. Inoltre trovo che un tè intitolato a san Benedetto sia una cosa straordinaria a cui nessuno abbia mai pensato. Un tè che fa i miracoloni, forse. O un tè dove impregnarsi le dita per farsi il segno della croce in chiesa. Bibe et labora.
Ma torniamo al potere seduttivo degli slogan.
E facciamo, ancora una volta, un salto indietro, nel 1973. Pier Paolo Pasolini, acuto radiografo della realtà, odiava gli slogan. Perché sapeva che sarebbero diventati la tomba della lingua italiana: “ La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, unici depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte.”
Accidenti.
Oggi Pasolini userebbe il lanciafiamme o farebbe il terrorista, visto il livello a cui siamo arrivati.
Gli slogan più in voga del momento, oltre quelli dedicati a bevande rinfrescanti, sembrano essere Diopatriaeffamiglia, Meikamerikagreitagein, Primaglitaliani, Giulemanidallafamiglia, piuitaliamenoeuropa, e così via. Riassumendo in qualche parola dei concetti che vorrebbero contenere un pensiero ma che in realtà non significano assolutamente niente, il che vuol dire che il pensiero non c’è. Almeno negli spot pubblicitari di Marcello Marchesi il pensiero c’era, ed era quello di istruire gli italiani anche facendo pubblicità a un lassativo, metaforicamente evacuando l’ignoranza.
La povertà di linguaggio e quindi di pensiero che oggi ci affligge fu predetta da Pasolini più di cinquant’anni fa, ma ancora prima da Orwell e la sua neolingua (1949) con cui, nel suo romanzo distopico 1984, si cambiava la storia a uso e consumo del dittatore di turno.
E questo avviene oggi, quando un presidente del Senato psicofascista vorrebbe riscrivere la storia di via Rasella, dove la rabbia antifascista si sarebbe espressa contro una banda di pensionati (mentre erano agenti di polizia nazista, tutt’altro che pensionati) senza una sola parola di condanna per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, rappresaglia nazista per quell’attentato.
L’uso delle parole che il potere fa, ben espresso nella lezione inaugurale del 1970 al College de France di Michel Foucault che fu poi raccolta nel volume L’ordine del discorso, è sempre quello che il discorso non dev’essere compreso, dev’essere solo accettato, in modo da controllare i sudditi, i quali, soprattutto se non dotati della consapevolezza degli strumenti analitici del discorso, sono propensi alla rassegnazione e quindi all’accettazione del potere.
Lo slogan questo fa, impoverendo enormemente la complessità e veicolando un non pensiero ma un frammento. E non è nemmeno necessario che quel frammento di discorso abbia un senso compiuto, basta che si obbedisca a quel frammento.
Provate a fare un esercizio. Anche se detestate la sua voce, la sua inflessione regionale, la sua aria condominiale da prima della classe, fate attenzione ai rari interventi di Giorgia. Analizzate le parole che dice e verificate, per come potete, le informazioni che lei fornisce. Scoprirete che il 90% è fasullo, inventato, inesistente e che, seppure con un tono convincente, lei riesce a manipolare l’ascoltatore. In questo è bravissima, perché ha compreso che la maggior parte di chi la ascolta non ha i mezzi critici per capire che lei sta raccontando favolette ed è totalmente disinformato. Oppure le cose che racconta Giuseppe Conte sull’Ucraina e Zelensky, in cui quasi quasi, in questa sua posizione pacifista de noantri, giustifica Putin: “Non lascerei al presidente dell’Ucraina Zelensky il compito di decidere come e quando sedersi al tavolo e a quali condizioni”, dimenticando o essendone fermamente convinto, che sarebbe la cosa peggiore, oltre che l’Ucraina abbia provocato la guerra e non sia stata, al contrario, invasa.
La cosa diventa pericolosa quando questa tecnica di disinformazione viene adottata nei libri di Storia, dove le informazioni vengono manipolate e rovesciate. È degli ultimi giorni la scoperta che in alcuni libri di Storia, in uso nelle scuole della Repubblica, la recente guerra in Ucraina non sia un atto d’aggressione da parte della Russia, fornendo così all’allievo informazioni distorte e preparando il terreno per un futuro di mistificazioni e un atteggiamento filoputiniano.
La stessa cosa fanno Putin e Trump, quest’ultimo con un infinito repertorio di bugie, credo anche inventate lì per lì. Ma i boccaloni ci sono sempre. E Trump, e i suoi successori, avranno vita facile, vista l’impreparazione quasi totale dell’usoniano medio.
MAGA. Basta la parola, appunto.
Prendendo a prestito il titolo di una canzone di molti anni fa (Sanremo, 1956), potremmo dire La vita è un paradiso di bugie. La cantava Luciana Gonzales, una mia collega alla RAI di Milano.
Ed ecco lo slogan per i tempi moderni. Molto vintage.
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