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Relazioni

La morte “oscena” e la crisi del senso comune di umanità

di Caterina Bonetti
17 Dicembre 2019

Qualche giorno fa, sul sito Raiawadunia, un articolo raccontava ciò che possiamo imparare (o riscoprire) sul dolore grazie al mondo animale. La vicenda dell’orca che ha vegliato il cucciolo morto per giorni interi vicino al porto di Genova, accompagnata dal branco, che non l’ha abbandonata e ha ripreso con lei il largo solo nel momento in cui ha deciso di lasciar andare il suo piccolo, ha commosso l’opinione pubblica. In tanti si sono interrogati sulla capacità emotiva di questi animali, sulle loro competenze di relazione, su ciò che, in un modo a noi non intellegibile, sono in grado di comunicare, facendosi carico – comunitariamente – del lutto. Un lutto che risulta sempre più difficile da accettare nella società moderna, fatta di rapide risoluzioni ai problemi, di performance da mantenere, di efficienza e soprattutto di negazione della fine, della caducità, del dolore stesso. Il dolore è “osceno” perché turba il quieto vivere e perché ci ricorda, senza possibilità di evadere il discorso, che nella vita non esiste solo il progresso, la positività, la gioia. Il dolore ci infastidisce perché potrebbe capitare anche a noi e non vogliamo immaginarlo. Questo è un fatto ancora umano, dato da una paura, dall’impossibilità – a volte – di farsi carico della cura che il dolore impone, dall’incapacità emotiva, che ci fa trovare impreparati di fronte a qualcuno che, semplicemente, chiede comprensione e accoglienza e non le risposte e soluzioni predeterminate che ogni giorno siamo abituati a dare. Poi esiste un altro tipo di rifiuto, quello strisciante di chi non riesce, nemmeno di fronte alla sofferenza altri, ad uscire dalla sua autoreferenzialità, dal suo io completamente autocentrato. È quello che si è manifestato in un ospedale a Sondrio in queste ore, quando una madre, appresa la morte della figlia di appena cinque mesi, si è lasciata andare a quello che è l’atto più naturale e normale per un essere umano: la disperazione. Una disperazione che però non ha trovato solo accoglienza, ma anche il rifiuto da parte di alcune persone in sala d’aspetto, che hanno chiesto che la donna venisse messa a tacere e allontanata, perché turbava la loro attesa. La cronaca locale riporta commenti razzisti, riferimenti a riti sciamanici, a “urla da scimmia”. La morte di una bambina, la disperazione di una madre devono turbare, impongono quantomeno il silenzio e il rispetto, richiederebbero compassione e accoglienza: umanità in una parola. A prescindere dalla manifestazione materiale di questa disperazione. Ciò che nel mondo antico distingueva le bestie dagli uomini era proprio la cura riservata ai defunti. Chi, attraverso un rituale, accompagna – in modo privato o comunitario – la persona scomparsa è degno di essere chiamato uomo. L’estrema offesa, la punizione peggiore che possa capitare è la mancata sepoltura. Antigone, eroina classica e immagine stessa della “pietà familiare”, disubbidisce all’ordine del tiranno Creonte pur di dare sepoltura al fratello. Il tiranno e l’eroe.  Ade, dio dei morti per la mitologia classica, prova pietà per il dolore di Orfeo per la morte dell’amata Euridice e gli concede, cosa mai accaduta ad un mortale di scendere agli inferi per riportarla indietro. La pietà che può superare il limite fra mortale e immortale. Viene da domandarsi dove possa arrivare una società che, in una condizione di pieno benessere, distante da guerre e dittature, trova sconveniente e da censurarsi il lutto di una madre, verso quale tipo di “progresso” pensi di essere diretta. E quale limite dell’umano siamo ancora disposti a veder superare.

umanità
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