Religione
Sant’Agostino, gli Amazigh e il silenzio sulla libertà religiosa: il viaggio in Algeria tra profezia e omissione
L’annuncio del Santo Padre di sperare in una visita in Algeria è, senza dubbio, un gesto dal forte valore simbolico. È un segnale che richiama la memoria di sant’Agostino, figura centrale del cristianesimo occidentale, nato e vissuto nel Nord Africa romano, in un contesto profondamente amazigh. Agostino e sua madre Monica non furono “europei” nel senso moderno del termine, ma figli di quella terra nordafricana che oggi chiamiamo Maghreb, abitata da millenni dal popolo Amazigh, “uomini liberi”, custodi di una cultura antica e stratificata. Ricordare questa origine non è un dettaglio folkloristico: è un atto di verità storica che restituisce al Nord Africa il suo ruolo di culla del cristianesimo primitivo.
Gli Amazigh non sono una “razza”, ma un insieme etno-linguistico e culturale che attraversa i confini moderni di Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Mauritania e Niger. La loro lingua, il Tamaziɣt, è riconosciuta ufficialmente solo in Marocco e in Algeria, ma con esiti molto diversi. Il Marocco ha intrapreso, pur con limiti e contraddizioni, un percorso più coerente di valorizzazione dell’identità amazigh, integrandola nel discorso nazionale e costituzionale. Questo dato è rilevante perché mostra come il riconoscimento della pluralità culturale sia spesso il primo passo verso una maggiore tolleranza religiosa.
Qui si innesta il confronto inevitabile tra Marocco e Algeria sul tema della libertà religiosa. Il Marocco, pur essendo uno Stato islamico, consente lo svolgimento pubblico delle funzioni cristiane, specialmente per le comunità straniere ma anche, in modo più discreto, per i cristiani locali. Le celebrazioni natalizie, la presenza di chiese attive e un certo margine di azione per le organizzazioni caritative cattoliche sono fatti noti. Questo si inscrive in una lettura della dottrina islamica che richiama la protezione delle “Genti del Libro”, principio affermato nel Corano e storicamente applicato, con alterne fortune, nel mondo musulmano.
La situazione algerina appare invece molto più problematica. Negli ultimi anni, le autorità hanno adottato un approccio sempre più restrittivo nei confronti delle comunità cristiane, sia protestanti sia cattoliche. Chiese chiuse per presunte irregolarità amministrative, autorizzazioni negate o revocate, pressioni sui fedeli: tutto ciò configura una limitazione strutturale della libertà di culto. Il caso della Caritas in Algeria è emblematico. La sua chiusura per ordine governativo non è solo un atto amministrativo, ma un segnale politico forte: colpire un’organizzazione caritativa significa colpire una presenza che non fa proselitismo, ma offre servizi sociali, assistenza ai poveri, ai migranti, ai più vulnerabili.
Il silenzio internazionale su questa vicenda solleva interrogativi legittimi. Perché se ne parla così poco? Perché il possibile viaggio del Santo Padre rischia di essere raccontato solo come un gesto di dialogo e riconciliazione, senza affrontare apertamente la questione della libertà religiosa? La diplomazia vaticana, storicamente prudente, privilegia spesso il linguaggio dei “ponti” piuttosto che quello della denuncia. Tuttavia, esiste un limite oltre il quale il silenzio può essere percepito come acquiescenza.
Un viaggio papale in Algeria, senza un chiaro riferimento alla condizione dei cristiani locali, rischierebbe di rafforzare una narrazione ufficiale che nega l’esistenza di una persecuzione “di fatto”, anche se non sempre violenta. La libertà religiosa non si misura solo dall’assenza di martiri, ma dalla possibilità concreta di vivere la propria fede senza paura, senza doverla relegare alla clandestinità o a una tolleranza precaria e revocabile.
Il coraggio, in questo contesto, non consisterebbe nel rinunciare al viaggio, ma nel dargli un contenuto profetico. Se il Santo Padre dovesse recarsi in Algeria, la prima richiesta dovrebbe essere chiara: libertà di espressione e di culto piena e reale per tutti i cristiani, cattolici e protestanti, e per tutte le minoranze religiose. Non una libertà concessa dall’alto come favore, ma riconosciuta come diritto fondamentale. Questo includerebbe la riapertura degli spazi di culto chiusi arbitrariamente e il ripristino dell’azione caritativa della Caritas.
Un tale messaggio avrebbe una portata che va oltre l’Algeria. Sarebbe un richiamo all’intero mondo musulmano sul fatto che il dialogo interreligioso non può essere solo simbolico, ma deve tradursi in garanzie concrete. E sarebbe anche un atto di coerenza con l’eredità di sant’Agostino, che cercò la verità nel confronto, non nell’imposizione.
In definitiva, il possibile viaggio del Papa in Algeria rappresenta un bivio: può diventare un gesto diplomatico rassicurante ma vuoto, oppure un’occasione storica per affermare, con rispetto ma con fermezza, che la dignità umana e la libertà di coscienza non sono negoziabili. Solo in questo secondo caso il richiamo alle radici amazigh di Agostino e alla tradizione delle “Genti del Libro” acquisterebbe un significato autentico e non retorico.
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