Scuola

Davvero non sappiamo più educare?

20 Novembre 2025

Una gang – alcuni maggiorenni, altri minori – aggredisce in modo feroce uno studente universitario poco più che ventenne, riducendolo quasi in fin di vita. Se fossero stati stranieri, la destra avrebbe avuto ben pronti i soliti slogan contro questi stranieri che non vogliono integrarsi. Ma si tratta di ragazzi della classe media, e allora occorre virare su un altro degli slogan che ingombrano il discorso pubblico di questo Paese: i genitori non sanno più educare. O, per dirla con l’affermazione di un insegnante su un social network: “Rispetto al passato i genitori di oggi hanno difficoltà a imporre regole e paletti e spesso non riescono a controllare ciò che i propri figli fanno fuori da casa”.

Analizziamo un po’ questa affermazione. Per questo insegnante educare è “imporre regole e paletti”. Se l’educazione ha funzionato bene avremo una persona adulta che rispetta tutte le regole, dalle leggi dello Stato al regolamento di condominio, e che si muove interamente all’interno di paletti. Possiamo considerare educata una simile persona? Si tratta di una domanda retorica: è chiaro che il rispetto delle regole, per quanto minuzioso sia, non ha granché a che fare con la maturazione effettiva di un essere umano. Se diamo ragione a Kant – e su molte cose Kant aveva ragione – dovremmo dire che una simile persona non è nemmeno propriamente morale: perché il rispetto delle regole è semplice legalità, se non nasce da una convinzione interiore, da un autentico senso del dovere.

Le regole sono indispensabili per la vita sociale. Un bambino di due anni al ristorante tenderà a lanciare oggetti: è normale, fa parte della sua fase di sviluppo, ma bisogna pure che i genitori gli dicano che è un comportamento socialmente inaccettabile. L’errore è credere che ciò esaurisca l’educazione o che coincida con essa.

Fin dalla nascita il bambino si muove verso la conquista di nuove possibilità. Si attacca al seno, poi comincia a controllare le mani, poi impara a gattonare, poi a camminare, poi a parlare. Una conquista dopo l’altra, ottenuta sotto una spinta autoeducativa organica. Non c’è bisogno di un insegnante di grammatica per imparare la lingua: il bambino fa da sé. Da solo impara a coniugare i verbi, all’inizio con qualche errore dovuto al fatto che non conosce le eccezioni; poi imparare da sé anche le eccezioni.

Questo processo è educazione. C’è educazione tutte le volte che aumentano le possibilità d’azione del corpo e della mente. Il processo è all’inizio interamente guidato dal bambino, poi gradualmente subentra l’adulto – il cui intervento diventa determinante quando si tratta di imparare a leggere e scrivere. Questo movimento di espansione, di aumento della possibilità e dunque del potere, va nella direzione opposta all’altro movimento, quello della socializzazione. Il primo è di espansione, il secondo di contenimento. Il bambino impara a muoversi. E corre: è bellissimo correre, ci dà il senso pieno del potere del nostro corpo. Ma nei corridoi della scuola dell’infanzia è vietato correre. Regola. Il bambino impara a parlare. E parla, parla, parla. Ma non si può parlare sempre. In alcuni casi bisogna stare in silenzio, perché si disturba. E così via.

È chiaro che una socializzazione senza educazione sarebbe disastrosa, come disastrosa sarebbe un’educazione senza socializzazione. Dei due pericoli, il primo mi sembra più concreto.

Qualsiasi adolescente passa la metà della sua giornata in un ambiente regolato come una istituzione totale. Sfido chiunque a trovare un ambiente che abbia un sistema di regole capillari e invasive come la scuola. Nemmeno il carcere lo è. Forse la caserma. Il problema con ogni probabilità non è che gli adolescenti non sanno rispettare le regole, ma che si impongono loro una quantità di regole che non servono a inserirsi in modo efficace in società, ma ad adattarsi a un ambiente artificiale come quello di un’aula scolastica. Per anni ho viaggiato sull’autobus insieme agli studenti, all’uscita da scuola. Il loro comportamento faceva pensare a una molla che è stata compressa e che, appena il peso che la schiacciava è stato tolto, salta.

Bisogna dunque, temo, rovesciare l’analisi. Il problema, sì, è che educhiamo poco. Confondiamo l’educazione con le regole e quindi veniamo meno alle nostre responsabilità educative – come se bastasse fare un po’ il caporale per essere dei genitori o degli insegnanti. Dovremmo chiederci ogni giorno come aumentare il potere dei nostri figli e dei nostri studenti, ma non c’è nulla che ci spaventi di più. Lo dissi ad un Collegio dei docenti, anni fa; e quando tornai a sedermi una collega mi chiese: “Ma hai detto davvero potere?” Dico davvero potere. Che è la possibilità di agire e crescere in una comunità che ti riconosce come soggetto, invece di vederti solo come oggetto di stereotipi e di narrazioni qualunquistiche.

Foto di Michał Parzuchowski su Unsplash.

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