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Beni comuni

Natale vuol dire avere un posto dove tornare, finchè dura

di Jacopo Tondelli
24 Dicembre 2022

Un paese di emigranti, come il nostro, il Natale lo capisce meglio. Celebrare la nascita di qualcuno, dopotutto, significa celebrare la storia e la geografia: il quando è succsseo, e un dove tornare per ringraziare del fatto che siamo qui. Nella festa universale in cui più o meno tutti celebrano il mito globale che ha fondato le fedi delle nazioni egemoni sulla modernità, si celebra in fondo una delle due certezze della vita umana, e cioè l’essere venuti al mondo. La sua data di nascita e il suo luogo di censimento: e, di conseguenza, anche il nostro. L’altra certezza è che tutti di qui ce ne andremo: e si celebra quando capita a ciascuno e poi, simbolicamente, in un Venerdì di primavera, quando il calendario cristiano ricorda la morte dell’uomo che è “nato” oggi. Lasciamo al suo posto il noto finale, che tanto per morire c’è sempre tempo, e stiamo invece al significato che questi giorni di Natale hanno qui, adesso, per noi, e ora.

Il noi di adesso, l’Italia che siamo diventati, è un posto interessante, e quello del Natale è un caleidoscopio per provare a ricordare com’eravamo, per capire cosa siamo diventati, e per immaginare cosa potremmo diventare. In tanti, anche tra noi adulti delle nuove classi lavoratrici- adulti che hanno ancora meno di cinquant’anni, per farla breve – abbiamo ancora un posto dove tornare. Un posto dove siamo nati e cresciuti. Un posto in cui ci sono genitori da raggiungere, fratelli e sorelle che non hanno abbandonato una terra e una radice, perfino qualche nonno che vediamo ancora celebrato sui social network. È vero per molti di noi, soprattutto per chi dalla vita e dal lavoro è stato attratto lontano dalle origini per cercare una strada nelle poche città che esistono in questo paese e che sempre di più drenano risorse, intelligenze e opportunità lontano da una provincia sconfinata, piena di case vuote che cadono a pezzi e privo di opportunità di lavoro, di sviluppo e spesso degli stimoli umani minimi che servono per restarci o, tanto più, per tornarci.

E insomma, diciamocela tutta, un Natale dopo l’altro attorno a noi misuriamo il venire meno della spinta che porta a “tornare”. Non parlo di chi, come me, vive dove è nato e cresciuto, ma di quell’ampio mondo che costruisce le nostre città e in particolare Milano, cioè la mia, che qui è arrivato per studiare o lavorare anni o decenni fa, e piano piano non ha più ragioni affettive per riempire le valigie o le macchine e per tornare: verso sud, verso gli Appennini, verso le valli delle prealpi alle quali il Covid ha dato un’altra botta. La politica – men che meno la misera politica di questi decenni – non può forse occuparsi della felicità delle persone. Epperò può e forse deve guardare alle ragioni profonde dell’infelicità, del malcontento, e anche della malinconia. Che prospera in una sconfinata provincia sempre più vuota, o che rivive artificialmente attorno agli eventi dell’estate e ai fuochi artificio di Natale, finchè durano gli ultimi vecchi che non hanno concepito un’alternativa alla fuga.
Questi giorni, il loro fascino, la loro dolcezza, e la loro malinconia, sono anche un’occasione di riflessione che riporta ancora una volta alle radici di un modello di sviluppo che merita di essere guardato con sincerità da vicino. È vero: se non lo si fa mai, perchè farlo a Natale? Perchè è un giorno speciale, ad esempio, in cui si celebra chi è nato e ci si ricorda che siamo nati noi. Senza una comunità attorno non sarebbe successo. Perfino una grotta abbondata, a quanto pare, è stata un buon punto di partenza.
E dunque, Buon Natale a noi.

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