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Calcio

Pallonate

di Ugo Rosa
24 Agosto 2020

Con l’Atalanta mi ero preso un dispiacere. Godersi per novanta minuti una squadra di outsider che ne tiene in scacco una di miliardari persuadendoti che l’impossibile sia possibilissimo e poi vederla perdere a tempo scaduto, incassando due gol in cinque minuti, è cosa che trascende il cruccio e sconfina nella tragedia greca. Già dalla metà del secondo tempo la squadra però arrancava come una carovana di ciucci sovraccarichi che s’inerpica per i sentieri dell’Himalaya; di tanto in tanto uno s’accasciava al suolo stremato e l’unico comportamento umano, per lo sherpa Gasperini, sarebbe stato di abbatterlo, cosa che però non poteva permettersi dal momento che non c’erano rimpiazzi. Perciò lo rimetteva in piedi puntellandogli le zampe con canne di bambù e liane e quello andava avanti, rigido come un fenicottero, fino al prossimo, inevitabile, crollo. A un metro dalla cima è accaduto ciò che era prevedibile: la fila si è rotta e i muli sono precipitati tutti insieme a fondovalle. Da quel momento sapevo che la squadra più odiosa e arrogante d’Europa, il PSG, sarebbe tranquillamente arrivata in finale. Così è stato. Sembrerà evidente, a questo punto, una mia antipatia viscerale nei confronti della squadra francese. Ma non sarebbe un’impressione corretta. Nel PSG ci sono dei campioni – uno per tutti, Angel Di Maria – ma, perdio, i suoi due giocatori simbolo si chiamano Neymar e Mbappé e rappresentano tutto quello che nel calcio odierno trovo detestabile: la fatuità spocchiosa, l’infantilismo, l’arroganza del bullo, l’ipocrisia del moccioso viziato e cialtrone che frigna anche quando lo accarezzano perché sa che ciascuno dei suoi stinchi è assicurato per milioni e ogni mascalzonata gli sarà perdonata. Naturalmente non sono un connaisseur. Da ragazzino, come tutti, giocavo al pallone per strada e adesso, quando posso, guardo le partite in tv. Tutto qui. Non possiedo neanche una “fede” calcistica. Decido di volta in volta per chi tifare e quasi mai si tratta della squadra più forte. In pratica, perdo sempre. Ma, al contrario di quello che succede in altri settori – in cui è necessario rivedere le proprie sensazioni al ribasso stemperandole con la ragione – nel calcio posso consegnarmi alle avversioni più estemporanee e ad ogni subitanea attrazione. Detesto e amo liberamente in base a non so che e non so cosa, senza dovermi preoccupare delle conseguenze. Devo dire che è una meraviglia. Il bello del calcio, infatti, è che anche i dispiaceri fanno brodo. Così ieri una squadra solida, tetragona, schietta, funzionale e bella come un’architettura di Heinrich Tessenow, ha preso a staffilate sul culo una squadra in tutù, fatua, modaiola, presuntuosa e inutile come un progetto di Odile Decq. Bona Dea Eupalla, nella sua infinita e benevola saggezza, è planata a Lisbona e con un colpo d’ala ha ripagato i miei dolori e rimesso al loro posto gli ingranaggi degli astri, facendone di nuovo risuonare le armonie. Il calcio è morto. Viva il calcio

calcio Cultura
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