Presto, molto presto, avremo finito le voci dei testimoni. Non ci saranno più quelli che ricordano Auschwitz, i treni piombati, i tedeschi sterminatori, gli italiani complici volenterosi o perfino entusiasti. Non ci saranno più neanche gli ultimi che solcavano le montagne e le valli con nomi di battaglia, con i fucili e le vivande in spalla. Non ci sarà più chi ricorda, senza arrivare alle tragedie, che si poteva essere tradotti in gattabuia per aver cantato “bandiera rossa” in un’osteria di campagna. Non ci saranno più, semplicemente, quelli che oggi hanno novant’anni e a venti anni stavano già dalla parte giusta: anche perché sono rimasti in pochi come è naturale che sia. È un dato di realtà cui pensiamo sempre meno, e forse questo anniversario pieno della Liberazione, questo 25 aprile del 2015, è un giorno buono per pensarci. Per fare i conti con un’assenza materiale dei portatori di testimonianza diretta, quelli che i più fortunati di noi hanno incrociato a scuola, da bambini, o in qualche circolo culturale e politico.
Cosa avremo perduto, cosa non avremo più, quando, fisicamente, materialmente, non avremo le loro voci sempre più flebili, le loro memorie sempre più stanche, quando insomma non avremo più loro? Non avremo più la possibilità del contatto fisico e sensoriale con l’unica generazione italiana post-unitaria che ha contribuito in modo decisivo a scrivere la propria storia, che la propria storia l’ha presa in mano collettivamente, che ha sfidato amici, compagni di scuola, magari parenti e perfino le proprie scelte o adesioni precedenti, e ha deciso, con le parole e con le opere, con la cultura e con la guerriglia, quindi anche con la violenza, che rischiava il tutto per tutto e ovviamente anche la vita e prendeva in mano il corso del proprio tempo per cambiarlo radicalmente, e in meglio. Non si tratta, qui, di dire ancora una volta se torti e crimini, anche atroci, sono stati commessi anche dai partigiani. La risposta è sì, e l’ha data per sempre la storia. Non si tratta nemmeno di chiedersi, ancora una volta, se il sole dell’avvenire che molti partigiani e resistenti immaginavano non avesse le fattezze di un altro stato totalitario, consanguineo di quello fascista che combattevano e rifiutavano. La risposta anche in questo caso è sì, naturalmente. Ma quel che conta, oggi che sono settant’anni da quel 25 Aprile, è altra cosa: è il confronto con un tempo fatto di donne e uomini capaci di partecipare attivamente al proprio destino, di rischiare per cambiarlo, di scegliere davvero da che parte stare mentre di lì, di qui, passava la storia.
Si dirà che altre volte la storia ha attraversato il paese, e ha raccolto proseliti al suo seguito. Il Sessantotto, i terrorismi, Tangentopoli e Mani Pulite, l’ascesa berlusconiana, il G8 di Genova. Giù giù, fino a fenomeni minori ma significativi, che hanno sfidato il confine tra cronaca e storia pretendendo di costruire la seconda e non la prima. Ogni volta che guarderemo indietro, fateci caso, ci troveremo ad ammettere che non è stato un pezzo importante di popolo italiano a scegliere una via, come fu quando contro la rivoluzione popolare del fascismo ormai stremato, un’altra rivoluzione popolare, quella della resistenza, si affiancò all’attacco degli alleati che erano americani, inglesi e sovietici. Dal 1946 in poi, abbiamo sostanzialmente sempre assistito a sommovimenti di élite, a blocchi di interessi magari onesti e legittimi, che hanno però guidato, spesso proficuamente e altre volte disastrosamente, le volontà e i movimenti popolari. In nessun caso, l’operaio e il contadino, il cuoco e il pescatore, sono stati attori della loro storia e fautori del loro destino come in quelle primavere dolorose e piene di contraddizioni, speranzose e affamate in cui si combatteva e poi si vinceva il nazifascismo.
E non è un caso se ogni volta, nella prima Repubblica di Tambroni e di Giorgiana Masi, quando i cittadini italiani per bene urlavano contro la strage di Stato di Piazza Fontana o quando i delinquenti brigatisti giustificavano l’ingiustificabile, quando Scajola difese le torture della Scuola Diaz o quando Berlusconi proponeva la riforma dell’ordinamento giudiziario o della Costituzione, ogni volta la mente e la retorica correvano là: al fascismo, alla resistenza. Perché il termine di paragone era sempre quello, la forza di prendere in mano il proprio destino in nome di una giustizia più ampia, di un ordinamento certo imperfetto, ma molto meno ingiusto. L’ambizione era sempre quella, inarrivabile, di fare la storia come l’avevano fatta De Gasperi e Gobetti, Togliatti e Dossetti, Fenoglio e Calvino, e i tanti senza nome e senza volto che avevano dato la giovinezza, spesso la vita per avere in cambio, se fortunati, una lapide in una via di Milano o nella piazza del loro paese sugli appennini. Diverse erano le carature dei resistenti, e diverse anche quelle dei nemici: tanto che suona patetica la voce di chi, oggi, invece di fare giusta battaglia politica contro il conformismo istituzionale che ci domina, contro la faciloneria di chi tratta dalla maggioranza di governo la Costituzione come se fosse il regolamento di condominio, brandisce lo spettro del fascismo da combattere. Più per raccattare qualche like su Facebook che per abbattere davvero il potere costituito senza il quale, peraltro, dovrebbe presto trovare un potere nuovo all’ombra del quale urlare al fascismo e campare lautamente facendo opposizione.
Ed è così, insomma, che celebriamo questi settant’anni dal 25 aprile del 1945. Noi trentenni, quarantenni, cinquantenni, generazioni diverse che da decenni non avevano tanto spazio, tanta visibilità, tanta (?) influenza, tanto potere (in pochi). I più abili di noi, almeno in politica, sono in primissima fila. Fanno alleanze, vincono o perdono battaglie. Twittano, scrivono, postano su Facebook: raramente si capisce che idea hanno e perseguono – abbiamo e perseguiamo – di paese. Ma anche dove si giocano gli equilibri strutturali del paese diciamo la nostra, più di prima, più che mai in passato. Decidiamo cose, facciamo scelte, prendiamo aerei, siamo parti di reti internazionali. Siamo anche, davvero, alla guida della nostra storia? O inseguiamo uno scampolo di consenso, di notorietà, di popolarità? Ci pensiamo alla guida delle vicende che ci riguardiamo, o cerchiamo la scia migliore possibile per assecondarle? Pensiamo più a come massimizzare il profitto di ciascuno, o ci sentiamo parte di un destino comune, che riguarda tutti, e da dipende da molti? Persiste il civismo che animò la resistenza e i costituenti, o i talenti e le possibilità che più di altri, da quella storia, abbiamo eredito sono solo nostri, e nostri resteranno? Non è questione da poco, e la risposta, anche se mi guardo dentro, non la so con chiarezza. So la risposta giusta, so che dobbiamo combattere ogni giorno perché sia quella vera.
Una cosa, però, mi ha molto colpito, nei giorni lastricati di morti lungo i nostri confini marittimi, che hanno portato al 25 aprile. Abbiamo parlato di blocco navale, di rifinanziamento delle missioni di contenimento, di bombardamento delle navi della morte. Una dozzina di anni fa, quando si parlava di immigrazione, a sinistra, si proponeva senza dubbi di abrogare al più presto la legge Bossi-Fini, fresca di approvazione, definita naturalmente “una legge fascista”. Sarà che adesso la sinistra governa, ma nessuno di questo ha più parlato. Si è data la colpa all’Europa (che ha le sue colpe, eccome), agli scafisti (che sono delinquenti, naturalmente), ai signori della guerra, ma di ripensare criticamente a un ordinamento che spinge chi vuole immigrare nelle braccia dei trafficanti di vite e di morti non ha parlato nessuno. Vuol dire che la Bossi Fini è il fascismo e chi non la abroga un collaborazionista? Naturalmente no. Vuol dire però che resistere, ogni giorno, è difficile, richiede memoria, complessità, contraddizione con la propria storia e col consenso, inimicizia coi propri compagni di scuola e di sezione, sguardi malevoli da chi ti può portare o riportare in parlamento, in consiglio di qualcosa, in una municipalizzata qualsiasi. Quel 25 Aprile non fu un pranzo di gala, chi lo rese possibile non ci arrivò pulito, sereno e senza dolori. Anche tenerlo vivo ha un costo, a questo serve ricordare una volta di più quella resistenza e quella liberazione, ed è ora di saperlo. Tutti.
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Quello che ho letto, il “loro” mi ha fatto pensare a questo intervento di Carlo Ginzburg: http://www.sas.ac.uk/videos-and-podcasts/culture-language-literature/our-words-and-theirs-reflection-historian-s-craft-to