Il catechismo dell’uomo di terrore

3 Giugno 2017

La scena di partenza è Parigi, 13 novembre 2015, il venerdì in cui molte cose sono cambiate. Il giorno in cui tutti noi abbiamo saputo cos’era il Bataclan.

Non si trattava più, quella sera, a differenza di quanto era avvenuto dieci mesi prima, di fare un attacco mirato (allora era la sede di “Charlie Hebdo”) ovvero di andare a colpire il nemico nella sua raffigurazione più iconica (tu che ti prendi molto sul serio, lui che ride di te. Quale gesto e atto più dissacratore di chi ride del sacro?) Ora la scena è quella del nemico da colpire “a prescindere”. Non importa ciò che pensa, ciò che fa, ciò che sceglie. Il dato essenziale è che esiste. Il suo scandalo, agli occhi del terrorista, è tutto qui.

La figura del terrorista che non è un nichilista, ma mira a un progetto politico teologico-politico. La guerra più che la continuazione o il presupposto della politica, ne è la trasformazione.

A partire da queste due premesse Donatella Di Cesare con con Terrore e modenità (Einaudi)

scava intorno alla filosofia politica, e all’immaginario della figura de terrorista contemporaneo. E si chiede: Chi è il terrorista nel nostro tempo? Che cosa lo differenzia dal rivoluzionario del Novecento? Che differenza c’è tra lo sterminio e la violazione del corpo dei totalitarismi e quella delle centrali del terrore? Perché i totalitarismi uccidono senza mostrare le scene delle loro violenze e i terroristi sì?

Le domande sono pertinenti e anche la descrizione fenomenologica del nuovo terrorista che ha i tratti variegati del terrorista tratteggiato molti anni fa da Michael Confino nel suo Il catechismo del rivoluzionario (Adelphi) dove propone l’analisi culturale, mentale e politica di Sergej Nečaev. I rivoluzionari, a partire da questa raffigurazione, non sono, dunque, superiori alla società che contestano, ma una copia conforme.

Aspetto che Camus descrive con precisione ne L’uomo in rivolta: lì Nečaev è la figura che sancisce il divorzio tra rivoluzione e amicizia sentimento che, da Cromwell in poi, ha fondato l’etica dei rivoluzionari. Con Nečaev  il vincolo di protezione reciproca che aveva salvato i rivoluzionari, si dissolve: ciò che ora va protetto è la rivoluzione, anche a costo della vita dei propri compagni. Essa va salvaguardata non solo da loro, ma anche contro di loro. Essa diviene la cosa che vale di più e per la quale tutto è lecito. Una figura quella del rivoluzionario, da cui devono guardarsi gli amici, prima ancora che gli avversari.

Che cosa il terrorista jihadista, ha in comune con questa figura,e che cosa lo distingue da questa figura del rivoluzionario di professione?

Così, come lo descrive Dostoevskij ne I demoni non solo in rapporto al tema della violenza, ma soprattutto rispetto al tema della finzione. Un mondo quello del terrorista fondato sulla finzione, ritenuta vera attraverso l’ambiguità (p.e. Piotr Verchovenskij, uno che finge come molti altri).

I rivoluzionari di Dostoevskij non sono superiori alla società che contestano, ma una copia conforme. Quelli che Donatella Di Cesare mette al centro della sua analisi (soprattutto antropologica, e culturale), non sono diversi.

Tuttavia non è vero che con l’ingresso del terrorista jihadista noi abbiamo avuto una ripetizione di un paradigma consolidato.

La prima differenza è nel rapporto con i propri. I propri non sono “gli amici”, come nel sistema Nečaev,  ma quelli che vanno”ricondotti a casa”, ovvero i modernizzati, quelli che hanno ceduto al mondo occidentale Anche per questo Khaled al-Asaad, l’archeologo di Palmira è stato ucciso e il suo corpo mostrato al mpndo.  Secondo una dinamica già avvenuta in tutti i processi di “ritorno a casa”, soprattutto nei movimenti religiosi degli ultimi quaranta anni, si convincono i figli o i nipoti, per riportare “a casa” gli adulti. Per quelli che rifioutano non c’è una seconda possibilità.

La seconda istanza è che quel processo di radicalizzazione usa l’estremizzazione del proprio agire perché il dato rilevante è costruire un muro che impedisca il ritorno. Il meccanismo jihadista, da questo lato è uguale e contrario a quello del fenomeno del pentitismo o della denuncia dei propri. E’ il passaggio che compie Ingo Hasselbach con il suo Diario di un naziskin quando deve uscire dai gruppi naziskin nei primi anni ’90 a Berlino. Semplicemente: scrive un diario in cui illustra il suo percorso e lo rende pubblico, quell’atto non solo rende irreversibile una scelta, ma si propone come atto che obbliga quel mondo a raccontare sé senza infingimenti ideologici.

La macchina della violenza jihadista compie lo stesso percorso alla rovescia.

La propria pratica violenta (ovvero le esecuzioni trasmesse in video dei prigionieri) ha una doppia funzione: dimostrare la propria irriducibilità; bruciarsi tutti i ponti alle spalle.

In questo senso la radicalizzazione violenta, più che un atto, sancisce un’appartenenza, dichiara la conferma di un’affiliazione. Indica, come sottolinea Di Cesare un processo di radicamento.

Un’ultima questione.

Nelle pagine conclusive del suo libro Donatella Di Cesare fa un parallelo tra l’immaginario dei Foreign Fighters che decidono di andare in Siria e quello dei miliziani delle brigate internazionali che nel 1936-1939 vanno in Spagna poer combattere nelle fila repubblicane contro il franchismo.

E’ un parallelo a prima vista azzardato, o eccesivo, eppure è ineludibile.

Quelle due scene non si sovrappongono, anche se a prima vista molti sarebbero interessati a scambiarle.

Donatella Di Cesare ha l’onestà di porlo e giustamente lo rifiuta. Secondo me è un tema essenziale, perché ci obbliga a ragionare sui valori che sono in campo e non su cosa significa combattere per la libertà degli altri. Contemporaneamente rifiuta una comparazione solo estetica dell’atto del combattente.

Ma, aggiungerei, anche per un’altra questione che esula dai temi  toccati da Donatella Di Cesare eppure centrale nel linguaggio della propaganda:  come si fa uso pubblico della storia e uso politico del passato. Un aspetto molto importante  in cui il culto dell’immagine, non gioca un ruolo secondario. E intorno a cui si stanno pericolosamente abbassando le difese.

TAG: terrorismo
CAT: Storia

Un commento

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  1. andrea-lenzi 7 anni fa

    nulla mi leverà dalla testa l’idea che la religione sia il terreno più fertile per l’intolleranza: lo dimostra il cristianesimo da 2000 anni (e che non smette: basti pensare all’omofobia esplicita, alla colpevolizzazione delle donne che abortiscono, alla inumanità con cui negano una legge a chi chiede di morire con dignità). ISIS non fa altro che ripercorrere in piccolo, e secondo i tempi nuovi, i passi dell’intolleranza cristiana, ben più organizzata e che ha fatto molte più vittime. E’ il caso di ricordare le “antiche” inquisizioni, ed i killer dei medici abortisti che fecero vittime in USA dal 1985 al 2000 e le falangi cristiane che massacrarono centinaia di donne e bimbi musulmani a Sabra e Shatila. Occorre finanziare scuole LAICHE ovunque, di modo da avere future generazioni non influenzabili dalla religione di turno

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