L’«Unità» cento anni fa, il primo numero

12 Febbraio 2024

Il 12 febbraio 1924 esce il primo numero de “L’Unità”.

Una storia lunga cento anni.

Quotidiano che pur con molte difficoltà e dopo molte traversie è ancora presente, anche se è solo una continuità di nome e di sotto testata. Ancora compare la dizione «fondato da Antonio Gramsci», anche se di lato e un po’ nascosta.

Di alcune storie, soprattutto quelle che segnano il passaggio da un giornale di massa e di opinione, quale era il quotidiano del Pci all’inizio degli anni ’70, alla sua crisi che ne segna la scomparsa alla fine del millennio (per la precisione l’ultimo numero esca il 24 giugno 2000), racconta Roberto Roscani nel volume L’Unità. Una storia, tante storie (Fandango).  Per esempio della morte di Pasolini, dei funerali di Berlinguer, delle domande inquiete del cronista Roscani intorno alla folla, alle grida che a Vermicino circondano il buco in cui è caduto Alfredo Rampi, la prima vicenda di cronaca trasmessa in diretta della Rai. Quarantotto ore che azzerano la politica (nelle stesse ore si era dimesso Arnaldo Forlani da Primo ministro, ma la notizia è completamente annullata dalla diretta da Vermicino).

“Quella dell’Unità – scrive nelle ultime righe di questa «autobiografia che forse è soprattutto la «biografia collettiva» di un gruppo – è una storia nella storia d’Italia e dentro – come in una matrioska- ci sono le storie di chi l’ha scritta e di chi l’ha letta, di chi l’ha diretta e di chi l’ha diffusa, di chi l’ha portata con orgoglio, piegata in tasca o ostentata alle manifestazioni, di chi ha imparato  a leggere sfogliando quel giornale, dei muratori che si facevano il cappello di carta per proteggersi dal sole, degli operai che venivano in redazione, degli intellettuali che ci scrivevano” [p.303].

Di quella impresa tuttavia mette conto tornare a rivedere la scena iniziale, quella appunto che si consuma un secolo fa (oggi) il 12 febbraio1924 vi scopriremo una lunga fedeltà con le vicende che Roscani racconta e ricostruisce, e un senso di sfida al presente che forse è il tratto che si mantiene per tutto questo lungo secolo e si consegna nelle scene finali che Roscani racconta, quelle appunto della chiusura, come effetto di una lunga crisi politica e culturale che si apre con il 1989.

Non perché quella storia era già scritta nell’inizio, ma perché la passione e la necessità di lavorare contro il tempo stretto della politica da una posizione di minoranza, di svantaggio, più che di disagio, era quella che caratterizza la fase di incubazione e poi i primi mesi in cui si avvia quell’avventura. Le linee e gli obblighi politici di quella sfida stavano nelle parole con cui Gramsci, ancora in minoranza, indicava nella sua lettera del settembre 1923

“Credo che sia molto utile e necessario, data la situazione attuale che il giornale sia compilato in modo da assicurare la sua esistenza per il più lungo tempo possibile. Non solo quindi il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito, ma esso dovrà essere redatto in modo che la sua dipendenza di fatto dal nostro partito non appaia troppo chiaramente. Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con tono disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista «scientifico». Capisco che non è molto facile fissare tutto ciò in un programma scritto, ma l’importanza non è di fissare un programma scritto, è piuttosto nell’assicurare al partito stesso, che nel campo delle sinistre operaie ha storicamente una posizione dominante, una tribuna legale che permetta di giungere alle più larghe masse con continuità e sistematicamente. […] Io propongo come titolo «L’Unità» puro e semplice…”

Dunque l’Unità”.

L’editoriale programmatico che apre il primo numero – dal titolo La via maestra – si concentrava sui termini della sconfitta storica subita ad opera del fascismo e poneva le questioni di una via di rinascita.

Primo presupposto: abbandonare le illusioni di poter correggere o mitigare le posizioni politiche e il programma di lavoro e dunque le decisioni del governo.

Secondo presupposto: battere o quanto meno ridurre la fuga dalla politica espressa nelle tendenze astensionistiche che si presentavano in vista della successiva tornata elettorale fissata al 6 aprile 1924 (quella segnata dalla nuova legge elettorale che dava maggioranza di due terzi alla lista vincente; quella di cui Giacomo Matteotti contesta i risultati nel suo intervento a apertura della legislatura il 30 maggio 1924. Come poi sia finita la sua uscita è cosa nota).

Conseguenza: dare un programma di alternativa. Ovvero riprendere il flusso di riflessione sulla fisionomia del quadro italiano, oltre le ideologie e soprattutto oltre i facili slogan.

Gramsci lo aveva scritto nel novembre 1923 in un testo che ha un carattere sia di bilancio che di programma – a firma Giovanni Masci (ma Antonio Gramsci) pubblicato sul periodico “La Voce della gioventù”. In quel testo dal titolo Che fare? definisce un progetto culturale che è soprattutto una missione politica.

La particolarità di questo progetto, non è nella questione dell’organizzazione, bensì nella convinzione che la crisi del partito nasca da un deficit culturale. La premessa è dunque per Gramsci che occorre “fare una spietata autocritica della nostra debolezza” domandandosi “perché abbiamo perduto, chi eravamo, che cosa volevamo, dove volevamo arrivare.” Dunque all’ordine del giorno sta una questione di assenza o di carenza di principi, di ideologia.

Ma questa premessa ha senso solo in relazione a un grumo di questioni non teoriche, ma storiche che riguardano la fisionomia della realtà della società all’interno della quale si intende agire. E perciò Gramsci si chiede:

“perché i partiti rivoluzionari sono sempre stati deboli dal punto di vista rivoluzionario? Perché hanno fallito quando dovevano passare all’azione? Essi non conoscevano la situazione in cui dovevano operare, essi non conoscevano il terreno in cui avrebbero dovuto dare battaglia. Pensate: in più di trenta anni di vita, il Partito Socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico-sociale dell’Italia. Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro significato. Perché nella valle del Po il riformismo era radicato così profondamente? Perché il partito popolare, cattolico, ha più fortuna nell’Italia settentrionale e centrale che nell’Italia del sud? Perché in Sicilia i grandi proprietari terrieri sono autonomisti e non i contadini, mentre in Sardegna sono autonomisti i contadini e non i grandi proprietari? Perché nell’Italia del sud c’è stata una lotta armata tra fascisti e nazionalisti che non c’è stata altrove?

Noi non conosciamo l’Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l’Italia, così com’è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di stabilire delle linee d’azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte. Non esiste una storia della classe operaia italiana. Non esiste una storia della classe contadina. Che importanza hanno avuto i fatti di Milano del ’98? Che insegnamento hanno dato? Che importanza ha avuto lo sciopero di Milano del 1904? Che significato ha avuto in Italia il sindacalismo? Perché ha avuto fortuna tra gli operai agricoli e non fra gli operai industriali? Che valore ha il partito repubblicano? Perché dove ci sono anarchici ci sono anche i repubblicani? Che importanza e che significato ha avuto il fenomeno del passaggio di elementi sindacalisti al nazionalismo prima della guerra libica e il ripetersi del fenomeno su scala maggiore per il fascismo?”

L’effetto di queste domande sarà, una nuova pratica di giornale soprattutto con l’inizio della crisi Matteotti. “L’Unità” diventa allora la sede di scambi, di opinioni, di organizzazione. Dalle iniziali 20.000 copie si passa in pochi mesi a 60.000 copie (a fronte di una censura che si fa sempre più pressante), ma diventa anche lo strumento per tentare di costruire un linguaggio politico.

Quello che abbiamo assimilato come il risultato di un laboratorio del gruppo dirigente intorno a Gramsci tra il 1924 e il 1926 è in realtà una piattaforma che ha la consapevolezza tanto che i tempi sono stretti, quanto il fatto che occorra ostruire un vocabolario politico rinnovato.

L’obiettivo, appunto, per riprendere le parole del novembre 1923 è dotarsi “degli strumenti adatti per conoscere l’Italia, così com’è realmente”.

Il saggio sulla questione meridionale la stesura delle Tesi di Lione e i Quaderni del carcere, un corpo di note di lavoro che è soprattutto uno straordinario deposito di intuizioni, di costruzione di categorie, di temi e questioni che consentono una lettura nuova della società e una possibile cultura rinnovata della sinistra italiana. A titolo esemplare ne indico tre: la categoria del nazional-popolare; le osservazioni sul fordismo; la lettura del Risorgimento come fenomeno complessivo attraverso il quale studiare il processo di “nazionalizzazione delle masse” che significa intellettuali, analisi dei ruoli e dei corpi intermedi; ruolo della letteratura d’appendice come fonte di linguaggi, immaginario, costumi delle classi subalterne.

Uno strumentario potente culturalmente e intellettualmente, e che aveva come preoccupazione lo studio della società, l’analisi dei meccanismi sociali, dei paradigmi culturali. In breve l’attenzione alle relazioni tra gruppi umani in un contesto geografico, culturale, ma anche delle loro trasformazioni dentro e durante quel processo storico.

È ciò che fa di un progetto politico non un travaso ideologico, rendendo un partito prigioniero di un linguaggio, ma lo strumento versatile capace di proporre domande intorno al funzionamento di una società nel tempo lungo, sulle sue regolarità e sulle sue contraddizioni.

L’effetto è l’accreditamento della politica come criterio e strumento perché conosce gli attori che si muovono sul terreno, ne ha studiato i problemi, ha riflettuto sulle angosce che ne motivano la mobilitazione, e perciò individua il possibile profilo di una soluzione.

L’esatto contrario dell’ideologia, sia nella versione di lisciare il pelo alle inquietudini della piazza, sia di fornire un kit di icone e di parole capaci di consolare nel momento della sconfitta, sia di coccolare i malesseri di chi legge i problemi del mondo (negli anni ’20 la crisi, oggi la globalizzazione) come improvvisa invasione del proprio spazio e disturbo alla propria quiete e perciò sogna una asfissiante e opprimente “società naturale”.

In breve la politica non come risorsa identitaria (come materialismo meccanicistico), ma come strumento di governo dei problemi.

L’Unità, 100 anni fa.

TAG: 12 febbraio 1924, antonio gramsci, fandango libri, lunità, Roberto Roscani
CAT: Storia

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