Quando a dire che è notte è la luce dei libri che bruciano

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10 Maggio 2020

Nel giorno che ricorda quando a Berlino, nel maggio 1933, a  Bebelplatz furono bruciati i libri, forse non è improprio riconsiderare che cosa significhi per davvero la guerra al libro. Perché se noi oggi facessimo solo una riflessione di tipo umanitario in nome della tolleranza (cosa che non considero “disdicevole”, sia chiaro) noi alla fine colpiremmo solo di striscio la cultura degli incendiari di libri.

Perché quella data, “brucia” dirlo, è diventata una scadenza di calendario civile, forse nel 1983 quando Leo Löwenthal propose quel tema in una sua pubblica lettura e, soprattutto quando i libri, sono tornati a bruciare nel nostro tempo.

Libri da eliminare perché fonti pericolose di saperi alternativi, libri da possedere perché luoghi generativi di potere. La guerra al libro non è stata condotta solo dai tribunali dell’Inquisizione ma ha segnato tutta la storia del Novecento, il secolo dei libri nascosti, perseguitati, sequestrati. Dal nazismo alla guerra di Bosnia. Poi di nuovo a Palmira, a Baghdad, a Mosul.

In questi giorni ho ripreso in mano un libro sui righi dei libri, uscito molti anni fa e oggi libro quasi introvabile, perché ci aiuta a capire perché e come quella storia non sia solo un residuo del passato.

Nei confronti del libro si sono storicamente svolte due tipi di guerre: quella per eliminarlo, perché fonte pericolosa; e quella per possederlo, perché luogo generativo del potere reale. In entrambi i casi, è oggetto artificiale capace di disturbare l’ordine naturale delle cose. Ovvero – e nell’ordine – andare oltre il sapere ordinario e turbare l’ordine costituito. I libri sono dunque un segno: di potere per chi li possiede e di deumanizzazione per chi li perde. In ogni caso possederne la chiave d’accesso significa dimostrare potere. La guerra ai libri nel corso del Novecento non ha avuto caratteri diversi da quelli già indicati. Negli anni della II guerra mondiale, essa è stata un segmento rilevante di quello stesso conflitto e non ha rappresentato un incidente di percorso né una distrazione. La guerra ai libri, per intenderci, è stata parte integrante di quella più generale guerra per il possesso della vita altrui che ha caratterizzato il profilo ideale dell’obiettivo politico del nazismo: la lotta per l’affermazione del «nuovo ordine europeo».

In questo senso il volume a cura di Jonathan Rose, non va letto solo come storia del rapporto materiale tra uomini e libri, ma come occasione per valutare e indagare il rapporto simbolico tra libro e collettività; tra individui associati e uso politico del libro; tra luoghi della identità nazionale e carta stampata.

Un complesso di storie e di conflitti che simbolicamente si radunano intorno all’oggetto libro e che contribuiscono a definire da un diverso angolo prospettico la storia del Novecento. Un secolo in cui – soprattutto a partire dagli anni `30 – occupa un posto rilevante la vicenda dei libri perseguitati, dei «libri nascosti», dei testi sequestrati.

Il volume curato da Rose si divide in quattro parti di cui la prima è dedicata al nesso tra distruzione e conservazione; la seconda è al ruolo dei libri nella cultura identitaria dei perseguitati; la terza al significato della lettura negli anni della persecuzione; la quarta, infine, ai roghi dei libri in Bosnia negli anni `90.

In realtà, sacralizzazione e distruzione del libro non sono che due facce della stessa medaglia. La sacralizzazione avviene allorché la persecuzione nei confronti del libro, la sua interdizione, l’inibizione alla sua lettura e, infine, la sua distruzione fisica si accompagna alla valorizzazione antiquariale e funeraria del libro: un modo per dichiarare – contemporaneamente – lo spossessamento del sapere e l’appropriazione da parte dei nuovi padroni delle fonti del sapere dei perseguitati.

Non è vero che il nazismo si limitò a bruciare i libri. Questo è solo ciò che avvenne all’inizio quando ancora si trattava di costruire un calendario civile che esaltasse il nuovo spirito della Germania. Nel saggio di Leonidas Hill, la caccia al libro per la sua distruzione è – sì – la storia della persecuzione del libro ma anche quella dei tentativi messi in atto per salvarlo: mille sotterfugi con cui i perseguitati cercarono di salvare la Germania che non aveva voce. Così che, accanto ai roghi dei libri, ci sono le storie di intere biblioteche che escono dalla Germania per cercare salvezza in Olanda o a Parigi prima, nel Regno Unito e negli Usa poi. È la storia dell’Istituto Warburg, della Scuola di Francoforte, delle collezioni private che prendono il largo da un paese e da una storia culturale che considerano ancora come propria ma che li ha radicalmente disconosciuti. È la storia di una delle poche biblioteche che escono indenni da questa vicenda, salvata solo grazie a un cambio di etichette, quella dei libri in braille per i lettori ciechi. L’unica biblioteca che si salva materialmente rimanendo dov’è.

La guerra al libro, tuttavia, viene condotta anche per impossessarsene sulla base del riconoscimento del suo valore simbolico, quello di rappresentare identità e di testimoniare di «eredità ricevute». Un patrimonio culturale fondativo dell’identità. E’ quanto, per esempio, afferma Sem Setter nel saggio dedicato alle peripezie di libri polacchi – soprattutto incunaboli, edizioni rare e antiche della bibbia – su cui si era costituita l’identità culturale e patrimoniale della biblioteca nazionale della giovane repubblica polacca e che – nel corso della guerra e poi della «guerra fredda» – divideranno in profondità la Polonia.

Un patrimonio che viene fatto fuoriuscire per sottrarlo agli invasori tedeschi e sovietici, che il Governo polacco in esilio sente come proprio luogo di memoria e di identità, che passa per il continente europeo, approda nel Regno Unito per poi depositarsi in Canada. Un patrimonio le cui peripezie non terminano con la II guerra mondiale. La guerra fredda e la realtà politica della Polonia in area socialista costituiscono, infatti, un altro momento di quella vicenda in cui Chiesa, esuli, mondo polacco occidentale e governo comunista di Varsavia tenteranno ciascuno di impadronirsi di quel patrimonio, proprio per il suo carattere fondativo e identitario.

Vi è quindi una terza variante di questa guerra: quella nella quale il libro è testimonianza di una realtà completamente distrutta e dissolta e che tuttavia – non per questo – è destinato a vivere di «vita protetta». Nei due saggi di Fishman (dedicato ancora alla Polonia) e di Blium (dedicato alla memoria della cultura ebraica in Urss nel II dopoguerra), la questione dei libri sopravvissuti alla Shoah diviene, infatti, la questione della possibilità per una cultura – il cui produttore sia scomparso o annichilito – di «restare» come testimonianza.

La tavola di atlante storico dedicata all’Europa dei roghi di carta in età moderna e contemporanea, tuttavia, non si ferma agli anni `40 del Novecento.

La guerra al libro è ripresa e – significativamente – i libri sono tornati a bruciare a Sarajevo nel 1992. Nelle pagine che András Riedlmayer, questa storia acquista un particolare spessore riflessivo. Se è vero che esiste un sottile filo simbolico del libro come legame tra persona e storia la vicenda di Sarajevo non parla solo ai bibliofili ma anche a coloro che nel tempo hanno intravisto nei patrimoni librari, nelle collezioni depositate nelle biblioteche un modo di riconoscersi nella storia e forse anche di ritrovare il senso di una storia collettiva.

Riandando ai giorni dell’incendio che distrusse la biblioteca (25-27 agosto 1992) scrive Riedlmayer: «I miliziani serbi, appostati sulle colline che circondavano Sarajevo, battevano l’area intorno alla biblioteca con il fuoco delle mitragliatrici, cercando di impedire ai vigili del fuoco di spegnere l’incendio lungo le rive della Miljaka, nella città vecchia. Le raffiche delle mitragliatrici facevano volare le schegge dal palazzo merlato costringendo i pompieri a ripararsi. […] Quando abbiamo chiesto a Kenan Slinic, comandante dei vigili del fuoco, perché mai rischiasse la vita, egli, sudato, coperto di fuliggine, a due metri dalla fiamme, ha risposto: `Perché sono nato qui e loro stanno bruciando una parte di me’».

Può apparire una risposta ovvia, eppure nasconde un confronto con il significato profondo della guerra al libro che sarebbe sbagliato non considerare. «In tutta la Bosnia – prosegue Riedlmayer, – biblioteche, archivi, musei e altre istituzioni culturali pubbliche e private furono destinate alla distruzione nell’intento di cancellare le testimonianze materiali – libri, documenti, opere d’arte che potessero rammentare alle generazioni future che vi fu un tempo in cui persone di diverse tradizioni etniche e religiose condividevano in Bosnia la vita e un patrimonio comune». E conclude: «Il fatto stesso di distruggere le istituzioni e la documentazione di una comunità fa parte in prima istanza di una strategia di intimidazione, il cui scopo è espellere i membri dei gruppi presi di mira: tuttavia tale distruzione svolge un preciso ruolo anche a lungo termine. Quei documenti erano la prova che in quel luogo vivevano anche altri, altri che lì avevano le proprie radici». Questo dunque voleva dire Kenan Slinic quando affermava che stavano bruciando una parte di sé.

Il libro, la sua storia, la possibilità che questo coabiti, coesista e sia parte di una collezione che vive della sua disomogeneità, tutto questo disturba i poteri totalitari cui corrispondono saperi autoriferiti. Tutte le retoriche dei neonazionalismi e dei neoetnicismi di fine secolo e di inizio millennio devono fare i conti con questo sapere composito; con la storia materiale di un sapere stratificato nel tempo che testimonia della grande multiformità delle proprie fonti e che dunque per sua natura ha una storia ibrida.

Nell’epoca dei conflitti interetnici, dei nuovi nazionalismi esclusivi una volta decomposta la figura dello Stato-nazione moderno, le figure stesse dei libri (e soprattutto delle collezioni librarie) come luoghi della storia e come depositi della memoria sono destinate a subire un trasformazione simbolica di alto valore. Un tema intorno al quale, una volta chiuso il volume curato da Jonathan Rose, conviene riflettere.

All’inizio della modernità l’immagine della distruzione del libro è potuta sembrare come un evento possibile a patto che si mantenesse una memoria e una consuetudine con il suo contenuto. L’affermazione della stampa contro il testo manoscritto sembrerebbe una garanzia sufficiente perché anche la possibile distruzione del libro non rappresenti un evento irreversibile.

È Jonathan Swift nella sua Favola della botte ad affidare nelle mani dei posteri la possibilità che un testo si mantenga. Perché si mantengano nel tempo, i libri devono sopravvivere materialmente e devono essere sottoposti ad una rilettura continua. Ma non sempre avviene. I libri, osserva Swift, vengono messi al mondo in un solo modo e se ne separano in mille modi diversi. La quantità di carta che serve a produrli, infatti, si disperde per sempre in una quantità di luoghi diversi: nelle latrine, nelle stufe, per schermare le finestre dei bordelli, per rattoppare i paralumi.

In questa osservazione di Swift sembra non essere contemplata l’ipotesi che i libri siano ingoiati dalle fiamme per volontà, come segno del potere. Forse pensava che gli ultimi roghi si fossero ormai spenti con le guerre di religione. Ma si sbagliava. I roghi dei libri sono tornati molte volte a illuminare i cieli anche recentemente. Delle guerre condotte contro i libri se ne è spesso parlato in relazione all’azione della censura, in nome di una guerra contro la libertà. L’immagine è quella della guerra folle in cui alla fine la ragione vince anche se subisce talora degli scacchi temporanei. La storia dei roghi dei libri, delle guerre al libro, forse andrebbe anche analizzata non come una genericamente rivolta all’«oggetto» ma al suo significato.

La guerra al libro non è mai una guerra indifferenziata. È guerra a un corpo di libri, a un luogo, a un contesto che li conserva. Il libro – non come singolo testo – ma come corpo complessivo di testi, come collezione di libri, ha assunto spesso la fisionomia di fonte generativa di potere. Meglio di luogo misterioso e recondito da cui si origina un sapere misterioso, «malato», comunque «perfido». Un sapere che non va smontato razionalmente, ma distrutto materialmente o di cui occorre impossessarsi per togliere all’avversario la propria potenza.

Nella seconda scena del terzo atto de La tempesta, lo schiavo ottuso Calibano cerca di convincere Stefano e Trinculo, il furfante beffardo e il cambusiere ubriacone, a uccidere Prospero, ricordando loro come sia indispensabile prima mettere a fuoco la biblioteca che ha portato con sé in esilio. «Bé come ti dicevo – dice Calibano – è suo costume assopirsi nel pomeriggio; tu allora, prima gli porti via i libri incantati e poi gli trapani il cervello o meglio, con un ciocco gli spappoli; o con un paletto gli apri la pancia; oppure con un coltello gli scanni la gola. Ricordati però, di prendergli prima i libri incantati, ché senza quelli non è che un povero sciocco come me: e senza più neanche uno spirito al suo comando; (…). Ma bada di non bruciare che i suoi libri.»

In questa scena ci sono molti luoghi del senso comune che ritornano: il ruolo dei libri, la figura sociale dell’intellettuale, la sua solitudine. Al centro è posta di nuova la fragilità e la vulnerabilità dei suoi strumenti.

In un atlante storico della storia sociale e culturale dell’Europa non sarebbe improprio provare a comporre una tavola dei roghi dei libri. Ne ricaveremmo un’immagine della storia europea che obbligherebbe a domande non banali sull’identità dell’Europa. Un’identità di cui non essere orgogliosi. «Là dove si bruciano libri – scriveva Heine – si finisce con il bruciare anche essere umani». E almeno fino al Novecento, insieme ai libri, si bruciavano anche gli uomini e le donne. Nelle piazze d’Europa dove più spesso si bruciavano uomini rei di eresia o donne accusate di stregoneria, insieme a loro si bruciavano anche i libri che avevano scritto, quelli che avevano letto, quelli che erano stati trovati negli scaffali delle loro biblioteche. Quelli in breve che li avevano «indemoniati».

Dietro ai libri si sono bruciate storie e, spesso, è della memoria che si è voluto prendere possesso. Ovvero della possibilità non solo di riscrivere la storia, e dunque di scegliere anche i suoi attori, ma anche di poterla documentare.

I libri sono oggetti che generano domande che, se chiosati, sottolineati, indagati – in breve «usati» – generano a loro volta altri libri. La guerra al libro viene condotta anche per «costruire» le librerie di domani. È per questo che è importante cercare di ricostruire le «biblioteche di ieri», di ritrovare le letture preferite di attori distrutti dalla violenza della storia. Da qualche parte per certi aspetti, quella storia è anche la nostra.

TAG: Bebelplatz (Berlin), Jonathan Rose, Jonathan Swift, La favola della botte, La tempesta, Leo Löwenthal, roghi dei libri, William Shakespeare
CAT: Storia

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