Genova, Una maratona teatrale per ricordare e capire

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16 Ottobre 2021

GENOVA. Dei fatti di Genova del 2001 si possono dare ancora diversi tipi di giudizio: di tipo storico-culturale e, più ancora, di tipo seccamente politico. Dal punto di vista storico-culturale non c’è dubbio che in quella occasione, come nelle altre grandi occasioni della protesta alter mondialista della fine degli anni novanta (prima e dopo Genova), le tematiche e le problematiche critiche sollevate dai movimenti di protesta contro la globalizzazione dell’economia, da intellettuali come Naomi Klein, Vandana Shiva, Noam Chomskij e dai manifestanti provenienti da ogni angolo del mondo, siano state lungimiranti e, in qualche modo profetiche, rispetto a quanto la realtà e il pensiero critico stiano oggi incaricandosi di mettere in luce. Sul piano politico le considerazioni possibili si dispiegano su due direttrici: da una parte se c’è stato un piano politico, definito o più o meno implicito, nella gestione politica dell’organizzazione dell’evento e dell’azione delle forze dell’ordine per contenere l’urto delle manifestazioni in città, dall’altra parte quale fosse allora – e quale sia ora – la cultura democratica presente nelle nostre forze armate e nelle forze di Polizia (ovviamente a partire dai vertici). Capire che si tratta di un argomento di importanza capitale è semplice se solo si riflette sul fatto che il primo passo nella costituzione delle organizzazioni statuali è appunto l’ancestrale cessione di fiducia nella ricollocazione della forza e dell’uso legittimo di essa dagli individui alla collettività. Basta soffermarsi un attimo su questi aspetti per rendersi conto che il movimento No Global nel mondo e dunque i fatti di Genova in Italia, pur tragicamente macchiati dal sangue di Carlo Giuliani e dalla sciagurata repressione “fascista” operata dalle forze di polizia, sono stati lievito fecondissimo per la comprensione della realtà contemporanea. Ricordiamo: Genova, G8, dal 19 al 22 luglio del 2001 il vertice dei leaders delle otto superpotenze mondiali, il governo Berlusconi/Fini (Scajola agli interni), le grandi manifestazioni dei movimenti No Global, la violenza dei Black Block, polizia e carabinieri che perdono l’equilibrio, la tragedia di Piazza Alimonda con l’uccisione di Carlo Giuliani, le violenze folli compiute dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, inaccettabili in uno stato di diritto e devastanti dal punto di vista della comunicazione di quanta libertà possa godere un cittadino italiano nel manifestare la propria opinione. È evidente che si tratta di uno snodo cruciale per capire l’Italia contemporanea.

Allora c’è qualcosa di straordinariamente antico e insieme di totalmente contemporaneo nel modo in cui il Teatro Nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore e a settant’anni dalla sua fondazione, sta proponendo alla città e al Paese intero una riflessione importante su quei fatti di vent’anni fa: ecco il G8 Project, con la curatela del dramaturg del teatro Andrea Porcheddu. Vent’anni non sono pochi e men che meno lo sono oggi, quando la velocità della comunicazione globale impone alla realtà trasformazioni altrettanto veloci e spesso più profonde di quanto non si riesca a percepire, però i protagonisti di quella vicenda di sangue, d’inaudita violenza, di quel momento in cui il patto civile degli italiani ha vacillato, sono vivi e operativi nella società ed è quindi (ancora) difficile porre quegli eventi sotto la luce della storia piuttosto che di quella del pensiero politico militante. Che fare allora? Farsi aiutare dal teatro, ad esempio, dalla sua capacità mitopoietica, interrogare il teatro, riflettere “insieme” a teatro, proprio come facevano i greci all’alba della nostra civiltà. Ecco spiegata la (tostissima) maratona di nove spettacoli prodotti per l’occasione e andati in scena sabato 9 ottobre, dalle 14 fino a tarda notte. Le drammaturgie sono di autori provenienti dai paesi che parteciparono al G8, le direzioni di registi italiani di nuova leva ma di sperimentata solidità. Nove spettacoli di diversa fattura e riuscita ma, nell’insieme, impregnati di un’idea importante di teatro politico e necessario che nel nostro paese è preziosa già in quanto tale. Nove spettacoli, dei quali i primi quattro, nel Teatro “Ivo Chiesa”, raccontano il G8, del 2001, la passione no-global che attraversa il mondo e scuote soprattutto l’occidente, la tensione politica e degli apparati di sicurezza e poi la violenza, le botte, lo smarrimento, la ferita aperta nella cultura democratica internazionale e italiana. “Change le monde, trouve la guerre” di Fabrice Murgia (proveniente dal Belgio), regia di Thea Dellavalle con in scena Irene Petris, Emanuele Righi, Alice Torriani: «38 anni, parlo a te me eroica che ero vent’anni fa» il bellissimo incipit e poi due grandi occhi che seguono quanto accade sulla scena. Un dialogo per ricordare la costruzione – interrotta violentemente – di una nuova identità politica che avrebbe potuto cambiare il mondo. “Our Heart Learns” di Guillermo Verdecchia (Canada), regia di Mercedes Martini, con in scena Rita Castaldo, Alberto Giusta, Silvia Napoletano, Martina Sammarco, Matteo Sintucci, presenta un plot più movimentato e dal respiro narrativo: una storia d’amore tra due ragazzi, una lei di colore, di estrazione borghese, di solida consapevolezza politica progressista e ovviamente protagonista delle lotte alter globaliste culminate a Seattle e poi a Genova; lui di famiglia contadina, rapporto negativo e doloroso col padre, bianco, poca fiducia in se stesso. Crescono insieme, tra manifestazioni e proteste, scoperta di una nuova consapevolezza politica e apertura al mondo, ma la violenza di Genova spezza la loro relazione e li cambia per sempre. Sullo sfondo un coro di cittadini che riflette sul senso collettivo delle manifestazioni no global. È una storia d’amore anche “Transcendance” di Sabrina Mahfouz (Gran Bretagna), regia di Serena Sinigaglia, interpreti Lucia Limonta ed Edoardo Roti. Una storia d’amore che esplode nella gioia, si dispiega nella quotidianità e va a spegnersi di cinque anni in cinque anni, accompagnandosi, nelle varie fasi, con un diverso tipo di droga e di tossicodipendenza. Un percorso dalle canne alla cocaina, dalle anfetamine all’extasy, dalla gioia di una vita piena d’amore e futuro, al dolore sordo di un presente avvelenato dalla negazione del futuro (un altro mondo “non” è possibile) e annegato nella “merda” della gioia artificiale della tossicodipendenza. Notevole e potente è apparso infine, sin dalle prime sue battute, “Sherpa” di Roland Schimmelpfennig (Germania), per la regia di Giorgina Pi e con in scena Fabrizio Contri, Carolina Ellero, Cristina Parku, Aurora Peres, Gabriele Portoghese. Gli sherpa, con una metafora mutuata dal mondo delle spedizioni in alta quota sull’Himalaya, sono nel linguaggio della diplomazia internazionale, gli specialisti che lavorano dietro le quinte dei grandi vertici internazionali, sono coloro che studiano e preparano i dossier, che elaborano i documenti finali lasciando ai politici l’elaborazione degli obiettivi generali e alla fine, non molto più che le photo-opportunities di fine vertice. La vicenda è immaginata nella grandissima nave da crociera che, ormeggiata nel porto di Genova, accoglieva e ospitava tutte le delegazioni di altissimo livello che erano state invitare a partecipare ai lavori del G8: piccoli alloggiamenti, scale strette e ripide, cucine comuni, lunghi corridoi tutti simili tra di loro. A parte l’elaborazione formale elegantissima dello spettacolo, ciò che colpisce è la capacità di cogliere da particolari, apparentemente molto secondari, della vicenda G8 il senso profondo e politico di quanto accaduto. E il senso della disperante, tragica sconfitta a cui gli ideali No global stavano andando incontro. Una sconfitta cosi tragica e disperante da non poter aver altra via di fuga che l’immaginazione di un mondo surreale e sotterraneo.

Gli altri cinque spettacoli, andati in scena nel Teatro “Gustavo Modena”, avevano l’obbiettivo di attraversare e raccontare il “dopo Genova”, raccontare ciò che è avvenuto dopo il crollo di quelle aspettative e di quella tensione positiva. Un racconto che non può più fermarsi a Seattle, a Genova o nelle mille altre piazze della protesta globale, ma deve percorrere in ampiezza e, soprattutto, in profondità il mondo intero, divenuto nel frattempo definitivamente assai più piccolo e chiuso. “Dati sensibili: New Constructive Ethics” di Ivan Vyrypaev (Russia), traduzione, regia e interpretazione di Teodoro Bonci del Bene va proprio in questa direzione. Un normalissimo e umanissimo triangolo amoroso tra un neurobiologo, una psicologa e una biologa si carica e si intride di una serie di nuove problematiche o nuove possibilità etico-politiche che scuotono dalle fondamenta l’assetto tradizionale del mondo. Il tutto nel contesto di una narrazione fluviale e ipnotica, sicuramente di grande fascino ma che forse avrebbe dovuto fare meglio i conti con i tempi dello spettacolo e della maratona. “In situ – Rêverie del XXI secolo”, testo e regia di Nathalie Fillion (Francia), con Fabrizio Costella, Viola Graziosi, Odja Llorca, Graziano Piazza è un bellissimo lavoro che, giustamente, si appoggia alla forza interpretativa di due grandi attori (Graziosi e Piazza): i sogni di una sofisticata donna e madre cinquantenne, raccontati ad un’analista, si aprono angosciati alla tumultuosa grandezza del mondo e della storia, mentre a visitare quei sogni è uno smarrito Cristoforo Colombo che ritorna nella sua città ed ad affrontarne e risolverne la problematicità è suo figlio ventenne che con una naturalezza quasi irritante sa dove trovare la possibilità di un altro mondo. “Il vigneto” di Toshiro Suzue (Giappone), regia di Thaiz Bozano, con Melania Genna, Lisa Lendaro, Francesca Santamaria Amato, Irene Villa. Il lavoro, l’amore, la persistente fragilità della condizione femminile, la realizzazione delle aspirazioni private, la forza del capitalismo globale che s’indurisce se possibile e non fa sconti, il tutto rappresentato nel contesto di una costruzione scenografica di gusto nipponico affascinante ma sostanzialmente inutile. “Basta” di Wendy MacLeod (Stati Uniti), regia di Kiara Pipino, con Cristiano Dessì, Lisa Galantini, Marisa Grimaldo, Davide Mancini, Alessandro Pizzuto, Roberto Serpi. Ha ritmo, toni, colori (e risate preregistrate) di una sitcom, divertente, veloce e graffiante, ma il meccanismo è straniante e il giudizio politico su quanto va in scena (il lascito reazionario della repressione poliziesca del G8) è diretto, chiaro, spietato. “Genova 21”, testo e regia di Fausto Paravidino (Italia) con in scena Iris Fusetti, Matteo Manzitti, Barbara Moselli, lo stesso Paravidino, Enrico Pittaluga: non si tratta di un vero e proprio spettacolo, ma di una riflessione seria, pubblica, partecipata e plurale che, a vent’anni dal suo “Genova ’01” e dopo un crescendo di considerazioni e accuse severe e giustamente rigorose alla gestione politica antidemocratica dei fatti di Genova, finisce con una riflessione importante e davvero non scontata, su quale debba essere il ruolo fraterno e realmente protettivo delle forze dell’ordine in uno stato realmente democratico.

 

Paolo RANDAZZO

Crediti fotografici: Federico Pitto.

 

 

TAG: GB Project
CAT: Storia, Teatro

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