Quanto si può imparare dal Mediterraneo (e dagli albanesi) del XVI secolo

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19 Dicembre 2016

Oggi il Mediterraneo è un mare di declino. Ma darlo per spacciato sarebbe un grave errore. Il mare nostrum continua ad avere un potenziale e un ruolo immenso. Come nella seconda metà del XVI secolo, quando il Mediterraneo era l’arena dove si confrontavano (e scontravano) l’Impero ottomano, la Spagna, la Repubblica di Venezia, Ragusa, lo stato pontificio. Lo racconta, e anche magnificamente, il saggio “Agenti dell’Impero” dello storico di Oxford Noel Malcolm. Che abbiamo intervistato.

 

autore: Kayak www.wikipedia.org CC

 

Sono passati oltre due millenni da quanto Socrate, nel Fedone, paragonava i greci sulle rive del Mediterraneo a rane e formiche intorno a uno stagno. Allora il Mare Interno era, per un ateniese come per un punico, il mondo (o meglio: la parte migliore di esso, perché il mondo era ben più grande). Ancora negli anni ‘20 del XIX secolo, con l’Inghilterra intenta a costruire un impero transoceanico e la Prussia proiettata sul Baltico, Hegel definiva il Mediterraneo «cuore del Vecchio Mondo, sua condizione necessaria e sua vita».

Oggi non è più così, il mare nostrum è solo una delle tante distese di acqua salata di un mondo sempre meno eurocentrico. Il Pacifico è ben più rilevante, sia dal punto di vista geopolitico che economico, e lo stesso può dirsi per l’Atlantico e per l’Indiano. Si dirà: bella forza, quelli sono oceani! Guardiamo allora al Mare del Nord. Al Golfo Persico, e allo stretto di Hormuz, da dove transita il 40% del greggio e del gas mondiali.

Pensiamo al trafficato Mar Baltico, nuovo crocevia energetico dell’Europa: non mi riferisco solo al North Stream, e al sogno russo del North Stream II, ma ad esempio ai terminal per il GNL a Świnoujście (Polonia) e a Klaipėda (Lituania), che tanto impensieriscono Mosca. Chissà: forse, tra un secolo o due, pure il silenzioso Mar Glaciale Artico avrà superato, quanto a rilevanza, il Mediterraneo.

Una classifica risulta particolarmente eloquente: quella dei Top 50 World Container Ports del World Shipping Council. I primi cinque porti del mondo sono tutti cinesi, escluso quello di Singapore. Nei primi dieci non figura nessun porto europeo, sono tutte strutture dell’Estremo Oriente con l’eccezione di Jebel Ali, negli EAU. Il porto di Rotterdam è undicesimo, quello di Amburgo quindicesimo, quello di Anversa sedicesimo. Finalmente, al trentunesimo posto, ci imbattiamo in un porto del Mare Interno: quello andaluso di Algeciras, che però è atlantico quasi quant’è mediterraneo. Valencia è al trentaquattresimo posto, il Pireo al quarantesimo. I porti di Gioia Tauro, Genova o La Spezia neanche figurano.

Eppure… eppure il Mediterraneo conta ancora tantissimo, nelle nostre vite. Specie se siamo italiani, turchi, egiziani, spagnoli. Ma anche francesi, ungheresi, siriani, o perfino tedeschi e irlandesi. La verità è che per l’Europa, per il Nord Africa, per il Medio Oriente il Mediterraneo rimane il mare fatidico. E d’altra parte, se un paese ricco e terricolo come la Svizzera investe miliardi per potenziare i collegamenti ferroviari con Genova, ci sarà pure un motivo…

Il declino del Mediterraneo va di pari in passo con la grave crisi che infuria a sud delle Alpi, e che è economica (Italia, Grecia), politica (Libano, Turchia, Egitto), umanitaria (Libia, Siria). È questa crisi a spiegare gran parte del declino dell’Unione Europea. Che non può fondarsi solo sulla potenza della Germania, l’innovatività delle nazioni nordiche, il dinamismo dei Paesi bassi o la rinascita dell’oriente baltico per contrastarla.

Al bimotore europeo non basta il motore del Nord per volare: serve anche il motore del Sud, o si rischia lo schianto… Non lo aveva forse già intuito un pensatore come Alexandre Kojève? Ma il potenziale del mare nostrum è immenso. E guai a darlo per spacciato! Per capirlo, basta pensare al Mediterraneo del XVI secolo, così magnificamente raccontato da Fernand Braudel in “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II” (Einaudi).

Il Mediterraneo ai tempi di Re Prudente… certo, l’Atlantico è già decisivo, pur essendo solo agli inizi della sua inarrestabile ascesa (la fine del TTIP e l’ascesa di Trump ne annunciano il declino?). Ma il Mare Interno è ancora un mare prospero e vitalissimo. E questo è vero non solo per l’Italia, la Spagna o l’Impero ottomano, ma anche per i Paesi Bassi, per la Francia e gli altri istmi continentali.

Ed è proprio questo mare che ci restituisce lo storico di Oxford Noel Malcolm, in un saggio che è stato salutato come una grande opera da esperti quali Sir John Eliott, David Abulafia o Felipe Fernández-Armesto. “Agenti dell’Impero” (Hoepli) è, probabilmente, un capolavoro. Una ricostruzione eccellente non solo delle vicende di due famiglie, ma di un’intera regione-mondo, segnata dall’ascesa di due Imperi: quello ottomano a est, quello spagnolo a ovest. In mezzo, sulla linea del fuoco, l’Italia del papa e della Serenissima Repubblica, i Balcani, Malta.

E dire che l’esordio del libro è quasi dimesso. Malcolm, che è un profondo conoscitore della storia albanese, si sofferma su una misconosciuta cittadina dell’Adriatico: Dulcigno, allora uno dei centri dell’Albania veneziana. 1600 abitanti, un’agricoltura in crisi, qualche modesto commercio, i sussidi da Venezia: ecco su cosa si basa l’economia di questa cittadina alla periferia dell’impero veneziano, quello Stato da mar che collasserà sotto i colpi della Sublime Porta.

Nel 1553 un ufficiale veneziano a Dulcigno ne scrive poco entusiasta: “hanno questi albanesi costumi barbari; parlano lingua albanese tutta differente dalla Dalmatina [slava]”. E ancora: “sono prestissimi alla collera, et gariscono volentieri nella piazza con parole”. In realtà Dulcigno sorprende. Perché in questo luogo «remoto ed esotico», perfetto per esiliare i cittadini veneziani caduti in disgrazia, fiorisce una società meticcia e anfibia. Come scrive Malcolm, «Se l’albanese era la lingua comunemente parlata dagli abitanti, e lo slavo solo da una minoranza, la lingua della vita pubblica e della maggior parte delle attività commerciali era l’italiano».

Dulcigno ha un grande municipio, ispirato al Palazzo del Governo di Ancona. Una cattedrale. Cinque chiese. Qualche intellettuale, come Lucas Panaetius, che a Venezia pubblica opere di Cesare, Plauto, Aristotele e Marsilio Ficino. Insomma, questa cittadina albanese di pochi mezzi sorprende. E qui il libro di Malcolm sfata un pregiudizio diffuso anche in Italia: quello di un’Albania, e di un mondo balcanico, perennemente condannati alla stagnazione.

Certo, nel XVI secolo l’Albania è una “piccola patria” incomparabilmente meno ricca delle Fiandre o dell’Italia. Ma è una terra vitalissima, su una delle frontiere più “calde” del Vecchio Continente. E come ricorda Braudel, gli albanesi emigrati sanno farsi onore in tutta Europa: «Nel secolo XVI ne incontriamo a Cipro, a Venezia, a Mantova, a Roma, in Sicilia, persino a Madrid […] Ne troviamo nei Paesi bassi, in Inghilterra, anche in Francia durante le guerre di religione, soldati avventuri seguiti dalle mogli, dai bambini e dai pope».

Oltre a essere dei temutissimi capitani di ventura, sono albanesi alcuni tra i più potenti pascià dell’Impero ottomano (pensiamo solo al ruolo della famiglia dei Köprülü nel XVII secolo). Sono albanesi molti intermediari tra le potenze cristiane e la Sublime Porta. Soprattutto, sono (italo)albanesi le famiglie dei Bruti e dei Bruni, protagoniste del libro di Malcolm: ecco Antonio Bruti, uomo della Serenissima in terra ottomana, problem-solver abilissimo sia negli affari diplomatici che nella corruzione o nel traffico di granaglie; i suoi cognati Giovanni Bruni, arcivescovo di Antivari, e Gasparo Bruni, cavaliere di Malta; Bartolomeo Bruti, dragomanno-faccendiere… Perché la storia, anche quella più evenemenziale, non è fatta solo dai potenti, ma anche da manovalanze oscure, talvolta straordinarie.

foto del prof. Malcolm

D’altra parte Malcolm non si contenta di raccontare le imprese, a volte davvero sensazionali, dei Bruti e dei Bruni. Grazie a un’ottima padronanza delle fonti e a un’eccellente capacità narrativa, realizza (una volta tanto non è una frase fatta) un grande affresco del Mediterraneo del XVI secolo. Lo scrive nell’introduzione: i suoi obiettivi sono «descrivere le esperienze, le avventure e le conquiste di una serie di individui straordinariamente interessanti e, allo stesso tempo, usare la loro biografia collettiva come cornice per un quadro più ampio e tematizzato delle relazioni e interazioni tra Occidente e Oriente in quel periodo».

Malcolm ci racconta i Balcani dell’epoca, specie realtà interessantissime come Capodistria (Koper) o Ragusa (Dubrovnik, la Repubblica di San Biagio che con l’astuzia e il denaro riuscì a tenere a bada tanto Venezia che Istanbul). Ci svela i retroscena della battaglia di Lepanto e del Concilio di Trento, ci conduce nella Francia lacerata dalle tensioni religiose e nella battagliera Moldavia. Soprattutto, ci aiuta a capire la perenne complessità del mondo e la necessità degli intermediari. Se “Agenti dell’Impero” non fosse un saggio, potrebbe essere un trattato di filosofia della storia. O un telefilm vincitore di svariati Bafta.

 

Professore, in primis ci può dire qualcosa di se stesso e della sua carriera?

Sono nato nel 1956. Ho studiato a Cambridge, dove ho conseguito il dottorato: in filosofia, su Thomas Hobbes. Per i primi sette anni della mia carriera sono stato fellow a Cambridge, insegnando storia e letteratura inglese. Poi sono passato al giornalismo, come commentatore politico per The Spectator, e dopo alcuni anni ne sono diventato caporedattore esteri.

Era un periodo interessante quello, con la fine del comunismo in Europa orientale e lo scoppio della guerra nell’ex Jugoslavia. Poiché ero molto interessato ai Balcani (avevo fatto numerosi viaggi lì, imparando le lingue locali), ho iniziato a scrivere ampiamente di politica balcanica, e ho scritto due saggi sulla storia della Bosnia e del Kosovo. Parallelamente, ho continuato con i miei studi accademici, occupandomi di Hobbes e altri temi della prima modernità.

Dopo alcuni anni come principale commentatore politico per il Daily Telegraph, mi sono dimesso, e sono diventato un autore indipendente a tempo piano. Nel 2002 mi sono candidato per una posizione di ricercatore senior in storia presso l’All Souls College dell’Università di Oxford, dove lavoro ancora oggi.

Il suo libro è un esempio davvero molto interessante di “microstoria” intrecciata con la “macrostoria”; voglio dire, i Bruni e i Bruti sono autentici protagonisti dell’Europa del XVI secolo…

Sono stato fortunato con i Bruni e i Bruti. Non potevo prevedere, quando ho iniziato le mie ricerche su queste due famiglie imparentate tra loro, che mi avrebbero condotto in così tanti posti: l’Italia, Malta, la Spagna, la Francia, l’Austria, la Polonia, la Romania ecc… Con mia sorpresa, ho realizzato che stavo esplorando aree abbastanza vaste della storia europea di quel periodo, specialmente aree inerenti il conflitto tra il mondo cristiano e quello ottomano. Ed è questa la ragione dell’abbondanza di “macrostoria” nel libro. Allo stesso tempo sentivo che seguire le vite di alcuni individui particolari (la “microstoria”) potesse rendere la storia reale, umana e concreta.

L’altro colpo di fortuna per me era che i Bruni e i Bruti avessero partecipato ad alcuni eventi importanti di per sé, in qualità di vescovi, capitani di una nave ammiraglia, o negoziatori chiave. Questa non è dunque la tradizionale microstoria che studia le vicende di un contadino in un dato villaggio e cerca di ricostruire il piccolo mondo sociale attorno a lui. Non sto criticando questo genere di microstoria, che può essere assai illuminante; dico solo che qui ho fatto qualcosa di diverso!

Il suo libro inizia a Dulcigno, una cittadina adriatica che era al contempo un remoto luogo d’esilio e una comunità vivacissima ai margini dell’impero veneziano. La periferia d’Europa può essere assai sorprendente qualche volta, vero?

Sì, molti dei luoghi su cui si sofferma il libro sono in qualche modo “periferici”, ma comunque significativi a causa del ruolo che svolsero in più ampie dinamiche commerciali, politiche, diplomatiche eccetera. Non solo Dulcigno, ma anche Capodistria, per esempio, dove molti Bruni e Bruti andarono a vivere dopo che Dulcigno fu conquistata dagli ottomani.

All’inizio del suo libro c’è una mappa dell’Europa dei Bruni e dei Bruti, dove sono segnati tutti i luoghi della loro parabola, da Orano a Brest. Questa mappa sfata il mito di un’Europa del XVI secolo statica, immobile…

Come ho detto, i Bruni e i Bruti si muovono moltissimo, e la mappa ne è un riflesso. Ma i loro spostamenti sono semplicemente esempi dei tipi di connessione esistenti in tutto quel periodo, attraverso i commerci, la diplomazia, le migrazioni, l’impiego di soldati stranieri e via discorrendo. Pensiamo a Gasparo Bruni, trasferitosi da Dulcigno a Malta e a Ragusa, e poi capitano della nave ammiraglia della flotta papale; quando Bruni serve come ufficiale militare ad Avignone, ritrova altri italiani che erano con lui durante la battaglia di Lepanto, più un giovane di Capodistria che è imparentato con lui in virtù di un matrimonio. Di storie del genere in quel periodo ce ne sono infinite.

Resiste ancora lo stereotipo di un’Europa cristiana e un Impero ottomano divisi da una sorta di “Cortina di ferro” ante litteram. In realtà non esisteva nulla di ciò, e la storia dei Bruni e dei Bruti ne è un esempio…

Esistevano senz’altro alcune barriere mentali: in quell’epoca di conflitti i libri, i pamphlet e i sermoni prodotti in Occidente dipingevano l’Impero Ottomano sotto una luce molto negativa, come una potenza aliena e ostile, e questo aveva un effetto profondo sulla pubblica opinione. Ma, come lei ha detto, non esisteva nulla di simile a una “Cortina di ferro”, e neanche qualcosa di paragonabile a una “Guerra fredda”. Commercianti e viaggiatori andavano e venivano; ad Istanbul, e qualche volta anche in altri centri commerciali, vi erano grosse comunità di mercati occidentali; e molti dei cosiddetti “turchi” nel governo ottomano erano cristiani convertiti, che in alcuni casi avevano un retroterra culturale italiano, croato o austriaco. Albanesi come i Bruti e i Bruni erano perfetti per fungere da intermediari, poiché avevano parenti nell’Impero ottomano, incluso un convertito che divenne gran visir, la seconda carica più potente dopo quella di sultano.

Qual è la sua opinione su “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II”?

Penso che sia un lavoro meraviglioso e stupefacente. Non tutto quello che scrisse in seguito Braudel mi ha impressionato tanto quanto quel libro, che sarà letto per altri 60 anni almeno. Sono in disaccordo con i suoi ragionamenti in alcuni specifici punti del mio libro: ad esempio, il reale significato della battaglia di Lepanto, o la ragione per cui alla fine del XVI secolo il Mediterraneo cessò di essere una zona di conflitto primaria tra spagnoli e ottomani. Nessuna di queste critiche, però, può diminuire la mia ammirazione per l’opera di Braudel.

Il suo libro dà grande spazio alle, diciamo così, “piccole patrie”, per esempio le cittadine dell’Albania, Capodistria e l’Istria veneziana, la Moldavia…

È un po’ troppo facile per gli storici moderni scrivere di storia internazionale concentrandosi sulle “grandi potenze”: un’attitudine alquanto ottocentesca, direi. Per la maggior parte della storia europea, la fotografia è sempre stata molto più complessa, così dobbiamo guardare pure al ruolo delle “piccole patrie” [in italiano]. E, sotto quel livello, nel libro ho cercato anche di attirare l’attenzione su ciò che chiamo “potenze irregolari”: gruppi come i cosacchi, i corsari del Nord Africa, i pirati della costa albanese, e gli “uscocchi” della costa croata, che avevano una forte influenza sugli eventi, senza conformarsi affatto al modello standard di relazioni interstatali.

Nel suo libro Ragusa ha un ruolo molto importante, oggi quasi dimenticato nell’Europa contemporanea.

Io penso che Ragusa fosse la Hong Kong dei Balcani ottomani. Dipendeva da un hinterland molto vasto, e quell’hinterland dipendeva, per gran parte del suo commercio, da essa. Ma la storia di Ragusa è ancora più strana, per certi aspetti. Hong Kong appartenne prima alla Gran Bretagna, e poi, da un certo momento in poi, alla Cina. Invece Ragusa riuscì in qualche modo a condurre per secoli una doppia vita, raccontando a se stessa e al resto della Cristianità che era uno stato indipendente, mentre gli ottomani erano convinti che fosse parte del loro impero. Non meraviglia che avesse un ruolo cruciale come spazio quasi-neutrale di intermediazione.

Venezia è un’altra protagonista del libro. Qual è la sua opinione sul ruolo della Serenissima nell’economia balcanica?

Difficile generalizzare. Nel periodo da me discusso,Venezia aveva alcuni centri commerciali sulla costa della Dalmazia e del Montenegro, incluso Dulcigno, ma si trattava soprattutto di centri dove la produzione agricola locale era acquistata per i consumi veneziani (o, nel caso di lana e pelle, per un’ulteriore lavorazione). L’influenza sull’economia balcanica non era molto forte; gli effetti sulla popolazione locale potevano essere negativi quando, nei periodi di cattivo raccolto, i mercanti di granaglie di Venezia facevano crescere il prezzo del grano con i loro acquisti. Ci potevano però essere anche degli effetti positivi, semplicemente perché Venezia costituiva un mercato per i produttori locali. In ogni caso i mercanti veneziani non penetrarono granché l’hinterland balcanico e non organizzarono lo “sviluppo” nel modo che qualche volta contraddistinse i mercanti ragusani.

La storia cambiò un po’ alla fine del secolo, quando Venezia sviluppò Spalato (Split) come porto per l’export balcanico. Ma per gran parte del XVI secolo il principale interesse della Serenissima nel possedere centri e territori sulla costa balcanica fu più limitato: le cittadine portuali servivano per la navigazione, e quei piccoli territori soltanto per proteggere i centri e fornirgli cibo. Venezia non impose alcun regime economico rigido ai suoi territori; infatti le condizioni di ciascun territorio erano le solite, applicate e mantenute dalle élite locali.

Parliamo di Lepanto. Non è che in Europa ne sopravvalutiamo la rilevanza storica?

Sì e no. Sebbene sia stata una vittoria colossale, le posizioni strategiche non cambiarono l’anno dopo, e nel 1573 Venezia dovette stipulare una pace umiliante con il sultano. Ma penso anche che dovremmo porci una domanda: che cosa sarebbe successo se gli ottomani avessero vinto a Lepanto? La mia risposta è che l’anno successivo avrebbero conquistato Corfù, e poi invaso l’Italia del sud. Dico invaso, non semplicemente depredato. Se questo fosse accaduto, ci sarebbero oggi moschee e minareti in Puglia e Calabria? Abbastanza possibile. In questo senso Lepanto fu immensamente importante.

Un’ultima domanda: quali sono gli storici che ammira di più?

In merito alla storia intellettuale della prima modernità, il mio eroe è Anthony Grafton, che ha contribuito così tanto alla nostra comprensione di alcune tematiche molto complesse, e sempre scrivendo con chiarezza meravigliosa e un talento da vero narratore. Per la storia ottomana ammiro Suraiya Faroqhi, brillante storica indiano-tedesca che ha esplorato molti aspetti della vita sociale ed economica ottomana.

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CAT: Storia, Venezia

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