Aiuto il teatro è vivo!
Sulle pagine di Repubblica di mercoledì, con passione e competenza, la brava Elena Stancanelli ha proposto una riflessione attenta sullo stato di salute del teatro. La sua bella pagina si apre con una legittima provocazione: “Forse il teatro morirà, e sarà la vittima più illustre di questa pandemia”, scrive. Non scomparirà per malattia, ma per incuria, per distrazione, per poca fiducia. E il rischio è dietro l’angolo. E l’articolo si intitola, come fosse un grido di dolore “Aiuto, il teatro muore”.
Stancanelli, che da sempre conosce e frequenta il teatro, sa bene però che quel titolo d’effetto coglie l’attenzione ma stona: muore? Ecco, no. Semmai c’è da dire il contrario. Aiuto! Il teatro è vivo. È ancora vivo, nonostante tutto.
Come in un film di supereroi, come un X-man all’ennesima potenza, il teatro recupera colpi e ferite, si rigenera e si rimette in piedi. Dopo un anno di chiusura, dura, durissima, deprimente, frustrante, c’è stato un movimento collettivo che ha portato ad una serie di manifestazioni pubbliche indette dalle lavoratrici e dai lavoratori dello spettacolo per sensibilizzare l’opinione pubblica e la politica. Una prima iniziativa ha chiesto di illuminare i teatri, bui e chiusi da un anno per le misure di contenimento della pandemia. Ed è stato bello rivedere quelle luci, calde, vive, brillare nella notte. Perché in fondo i teatri, questi buffi, strani, curiosi, affascinanti edifici anomali dedicati allo spettacolo sono il cuore illuminato della città. Stanno – stavano – nella piazza principale, segnavano lo spazio e il tempo sospeso del rito, della condivisione, della festa.
Mi è sempre piaciuto immaginare che Laurana, tratteggiando la sua “città ideale”, abbia voluto inserire, in quel secondo palazzo, sulla destra, il porticato d’ingresso al teatro. Non può mancare il teatro nella comunità (in quella mediterranea, greca e poi europea, occidentale così come in altre), non può mancare quello spazio in cui la democrazia si è specchiata e si è costruita.
Poi i lavoratori e le lavoratrici sono (siamo) scesi in piazza: presidii davanti ai teatri nelle strade e nelle piazze di tutta Italia e una delegazione anche davanti al Parlamento. E me li immagino i funzionari della Camera, gli onorevoli di passaggio che si affacciano alle finestre: chi sono? I teatranti… Ancora loro? Ancora i teatranti?
Eh già. Una massa sguaiata, forse, ma presente.
Ma una domanda resta, ed è legata al tema sempre irrisolto della rappresentatività e della rappresentanza – che per chi si occupa di rappresentazione dovrebbe essere una questione primaria.
Come il teatro si (auto)rappresenta? Chi e come rappresenta il settore? La questione è annosa e dibattuta. Il fiorire di una miriade di sigle para-sindacali e d’associazione, di recente conio, è testimonianza certo di quella innegabile e disperata vitalità, ma anche della eterna, inesorabile, spaccatura del comparto. Servono risposte e interventi urgenti, dice giustamente Stancanelli: non c’è più molto tempo, e la capacità di sopravvivenza dei teatri comincia a venir meno. E per rivendicare risposte forse è utile essere più compatti possibile. Eppure il teatro c’è. Ancora c’è.
E mi piace pensare che la bandiera ubuesca creata dal teatro Koreja di Lecce come vessillo di una resistenza tutta teatrale, una bella provocazione con quel grido di guerra irriverente e patafisico, possa sventolare fiera in tutti quei teatri che, come Wolverine, si rialzano e tirano fuori gli artigli.
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