Il teatro italiano, si sa, è infarcito di autobiografismo, al limite dello stucchevole: il racconto di sé diventa troppo spesso “ombelichismo”, raccontino della propria stanzetta, in cui l’ego diventa insostenibile “misura di tutte le cose”.
Tra i “figli di papà” che si sentono Dostoevskij; i pasoliniani di ritorno; gli emuli beniani e gli eterni epigoni di qualunque guru, lo spettatore si destreggia a fatica.
Se è fortunato, evita il trappolone di testi pretenziosi e inconcludenti – la famosa “drammaturgia due camere e cucina” –; schiva la storia della coppia che scoppia; aggira l’eterno e fumoso flusso di coscienza o di follia; ma prima o poi gli tocca fare i conti con l’autobiografismo.
Che però, quando funziona, diventa anche materia interessante.
“La colpa è di Rousseau”, ha scritto uno studioso come Philippe Lejeune. Perché, di fatto, è stato lui a rilanciare nel Settecento il tentativo di riscatto di sé attraverso il racconto del proprio vissuto, ovvero attraverso l’autobiografia.
Così l’autobiografismo, da genere letterario – Vico, Sant’Agostino, Montaigne, Casanova, Goethe… – diventa un grimaldello efficace di interpretazione della soggettività problematizzata. Il filosofo Paul Ricoer, poi, ci dice che le esistenze umane sono più leggibili quando vengono “interpretate” in funzione delle storie che le persone stesse raccontano o scrivono, assumendo modelli narrativi importati dalla “fiction”.
Queste storie di vita diventano le foucaultiane “tecnologie del sé”, cioè tentativi di comprendere la direzione del proprio vissuto, della propria avventura esistenziale, e di lasciare una traccia di sé. L’autobiografia entra in gioco, prepotente, nei momenti topici di crisi – l’adolescenza e la vecchiaia, all’approssimarsi della morte – e spesso si fa scrittura in forma di “journal intime”. Lo sanno bene a Pieve Santo Stefano, dove conservano l’archivio della memoria, fatto di infiniti e diversi diari.
Quando il “sé” si fa personaggio, protagonista di una narrazione, si osserva come soggetto in cammino, in evoluzione, e tutto acquista senso: tutto quello che siamo stati, le tante e diverse identità, si eclissano, muoiono, si mutano in un “io” nuovo, in pace con se stesso.
Pensavo a tutto questo, confusamente (adesso ho provato a spiegarlo meglio), mentre assistevo al Diario di Maria Pia opera scritta diretta e interpretata da Fausto Paravidino con Iris Fusetti e Monica Samassa.
Caso curioso, quello di Paravidino. Difficile e faticoso togliersi di dosso il peso dell’enfant prodige: ma ora che è uomo e drammaturgo affermato, Fausto continua a ricercare il suo teatro obliquo, volutamente sgradevole, dichiaratamente contemporaneo.
A volte riesce meglio, altre meno (ad esempio a me non era piaciuto l’acclamato Exit) però non gli si può negare un impegno – non solo artistico, ma anche sociale, umano – molto serio nel confronto con le strutture drammaturgiche e culturali italiane.
La vicenda, nel Diario di Maria Pia, è totalmente autobiografica, o almeno così ci dice. Paravidino mette in scena la malattia e la morte della madre. Fa spettacolo – addirittura ironica spettacolarizzazione – di un evento tragico privato, assoluto. Perché lo fa? In un primo momento si potrebbe dire, banalizzando papà Freud, per “elaborare il lutto”. In realtà, nell’evolversi dello spettacolo, si capisce che il piano emotivo è altro: si trattava di dare senso “narrativo” alla vita di lei, di Maria Pia, ossia della madre che, una volta ricoverata, inizia a raccontare, ricordare, spiegare, proprio per comprendere meglio e a fondo la grande esperienze della morte. Malata terminale di cancro, Maria Pia affronta la spossatezza, il vuoto, il silenzio, la mancanza di energie semplicemente raccontando.
Paravidino si è fatto “diarista” della madre, e ne ripete – replica dopo replica – il desiderio di trasmettere e comunicare il proprio sentire. È questo, dunque, che fa del lavoro una esperienza dolorosamente condivisibile, assoluta, capace di travalicare la singolarità per fare della scelta del racconto una pagina comune a tutti.
Lo spettacolo vede Paravidino e Fusetti nella parte di se stessi, poi – con pochi gesti o abiti – dare vita agli altri personaggi di questa storia: uno zio, la dottoressa, la sorella di lui. Forse caricando troppo le caratterizzazioni, spinte al limite della parodia (e con troppi sorrisetti), fanno da contraltare alla immobilità della madre degente. Lo spettacolo si sviluppa per quadri successivi, ed ha un apice, anche commovente, nel momento in cui Maria Pia si consola nell’ascolto della musica. Probabilmente poteva chiudersi lì, in quel momento alto e tragico, lasciando poi allo spettatore immaginare o elaborare il resto. Invece la drammaturgia ritorna su se stessa, si ripete sul nulla dei ricordi. Ma in fondo è così, è la banale normalità: quando siamo in ospedale parliamo di niente, ridiamo fintamente allegri di tutto, ci attacchiamo ad ogni parola, ad ogni gesto, per celebrare la vita che se ne va.
Paravidino, qui, è figlio, marito, nipote, fratello: mette in gioco tutte le “maschere” del sé. Lui, in scena, lavora in modo sapientemente irritante: sempre di taglio, sfugge, dà le spalle al pubblico, si chiude. Al suo fianco, Iris Fusetti si muove su toni più solari, aperti, semplici. Ed è bravissima, infine, Monica Samassa, attrice davvero potente, nel dare corpo e soprattutto voce alla figura di Maria Pia. Trova toni, ritmi, sguardi, essenziali e struggenti.
Al Teatro dell’Orologio di Roma, il Diario di Maria Pia ha ricevuto scroscianti applausi.
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