Ichòs Zoe: tutto è bene ciò che finisce
Non aveva l’amaro sapore del commiato la festa con musica presentata dallo staff della Sala Ichòs di San Giovanni a Teduccio, estrema periferia orientale di Napoli. L’ultima, serenamente ultima, stagione di un teatro minimo ma suburbanamente intraprendente è stata presentata il 26 ottobre nella sede del teatro. Proprio per accentuare il carattere della serenità la serata aveva tutta la convivialità di una festa tra amici, aperta a chiunque volesse partecipare. Io, forestiero di passaggio a Napoli, ci sono finito per caso, portato da un amico che si occupa di cultura e teatro, che frequenta la sala e ne è un entusiasta sostenitore: “Vuoi venire? Credo che potrebbe piacerti.”. Invitarmi a un evento così significa capirmi profondamente.
Il sapore era, pertanto, agrodolce, forse più dolce che agro grazie anche alla presenza del factotum, drammaturgo, direttore artistico, e anima di questa compagnia di avventurosi amanti del teatro, Salvatore Mattiello. Un Non-concerto viene definito, perché lui si è proposto con coscienza come non-cantante, peraltro per la prima volta in scena in veste di vocalista ma accompagnato da fior di musicisti (Gino Protano, chitarra e mandolino; Bruno Sasso, basso; Gennaro Sasso, armonica; Rino Turiello, tastiere) come fosse un autentico divo. E in effetti lo era, o almeno è sembrato esserlo, perché la sua è comunicativa istantanea e penetrante, supportata da un’empatia naturale tutta partenopea. Tutto è bene ciò che finisce, si diceva, e non perché ci siano crisi finanziarie, tant’è che la compagnia non ha problemi di passivi anzi al contrario sembra che sia in attivo. Si parla sempre di cifre minime, visto il tipo di realtà che è. Ma il segno che lascia è forte perché comunque c’è. C’è perché deve esserci, non per chissà quali scopi, non per porsi in antagonismo con teatri blasonati ma, al contrario, per aiutarli, per diffondere un amore e un’attenzione al teatro in una città che è costantemente teatro puro ma che in tempi difficili come gli attuali forse si distrae e, ad esempio, per il massimo teatro lirico, chiama direttori artistici da lontano. Persone che alla città e, diciamolo, all’opera, stanno come l’urea sta al marsala, anche se il prezioso liquido di scarto organico viene pagato come fosse stato prodotto dal re Mida.
Il teatro di periferia, così piccolo, poi, ha forse la funzione di lasciare acceso un lampioncino per non smarrirsi e per ricordarsi che forse la bellezza non ha abbandonato ciò che è assai lontano dalle luminarie del centro e dove l’oblio culturale domina spesso. O per mostrare “l’oggi da una prospettiva sghemba e periferica”, come scrisse Roberto D’Avascio qualche anno fa. Di certo il vulcano, che dall’alto regna su San Giovanni a Teduccio, in apparenza quiescente, ribolle in profondità e provoca fuoruscite impulsive di energia come la Sala Ichòs, mentre i suoi sacerdoti giocolieri ne colgono gli spifferi tellurici e li trasformano alchemicamente in gioia pura.
Per dire quanto questa microscopica realtà sia amata anche da attori e registi è da sottolineare la presenza in stagione di Roberto Latini (Fortebraccio Teatro), star consolidata del teatro italiano e Premio Ubu, che creerà due serate esclusivamente per Sala Ichòs e basta: Verso l’amore. E chi vorrà vederlo lo potrà fare solamente lì perché è uno spettacolo ad hoc, come annunciato nel corso della festa.
Oppure, per dire di come lo sguardo della compagnia sia andato sempre oltre, basti ricordare la realizzazione di un’Opera da tre soldi (2012) veramente con tre soldi, senza i fasti delle grandi fondazioni cittadine che produssero il lavoro brechtiano con molto più di tre soldi (720.000 euro!), andando forse contro la visione asciutta, antiborghese ed essenziale, dell’autore. Ichos è così, si fa con ciò che si ha e spesso ciò che si ha è di pregio. Dice Mattiello che “È stata, Sala Ichós, come un continuo esercizio di non attribuzione delle cose che abbiamo fatto operato da noi stessi. Un continuo esercizio di nascondimento dei suoi talenti.” Accidenti. Che manifestazione di consapevolezza e di umiltà.
Si aveva l’impressione, qualche sera fa, di far parte di un consesso di maghi benevoli che si divertivano a fare sortilegi con formule magiche e suoni, come se il piccolissimo palco della sala fosse in realtà un antro di meraviglie nascoste, animate dalla fantasia di ognuno di noi, stimolata dai ricordi che Salvatore traeva da sé e dagli spettatori e rimandava indietro al pubblico moltiplicati e miscelati. Può darsi che quest’abilità da pifferaio magico provenga dalla pregressa attività di teatro di strada, dove il rapporto col pubblico si gioca nell’immediatezza e le arti della comunicazione si arricchiscono e si affinano proprio per l’assenza di barriere.
L’incantesimo di Salvatore Mattiello si è espresso in un programma tematico che ha giustamente preso l’avvio da qualcosa che lo coinvolge personalmente. Salvatore lavora innanzitutto, infatti, come macchinista ferroviario. Guida i treni. Con turni diurni, notturni, pomeridiani, e fa pure il padre, il marito, il regista, il drammaturgo, con un sorriso perennemente giovane che sembra ispirato da un demone positivo che lo invade e che si diverte a possedere a sua volta chi gli sta davanti. La dimostrazione che se si vuol fare qualcosa si fa e basta e che il problema tempo disponibile quasi non esiste.
Il programma musicale perifericoferroviariotemporalsentimentale parte da un triangolo, che si materializza nello schermo sopra un binario ferroviario che si perde nel buio, ai cui vertici stanno tre T con al centro una P. P sta per Periferia, naturalmente, ma al contrario di ciò che si intende generalmente, la periferia sta qui al centro delle attenzioni e non è per nulla eccentrica, come semanticamente la parola reclamerebbe, mentre i vertici del triangolo, il Tempo, il Treno e il Teatro la circondano e la nutrono di linfa vitale. Forse la proteggono dall’esterno. La periferia diventa perciò il nucleo di una vita teatrale e musicale inaspettata e attiva.
La narrazione del viaggio inizia con La locomotiva di Guccini. Mattiello ci conduce attraverso i propri ricordi degli anni 70, che sono anche i miei, colle canzoni che allora i giovani cantavano nelle riunioni di comitiva, specialmente quelle di Francesco Guccini e Francesco De Gregori, di cui lui è parso un po’ imitare lo stile vocale. E la locomotiva è corsa fino allo schianto finale, arricchendosi di sfumature del tutto personali, quasi dettate dal sentimento e dalla nostalgia rispetto alla freddezza materiale e timbrica di Guccini, dove la non voce di Mattiello era forse un pregio per mettere in risalto il senso dei versi. Seguono Generale, Pablo e Bufalo Bill di De Gregori, Azzurro di Conte, Agosto di Lolli (…la strage dell’Italicus), ’O treno d’ ’o sole di Palumbo-Alfieri successone di Mario Merola, Treno di panna di Paoluzzi-Bertè-Vecchioni portato alla notorietà da Patty Pravo e C’è tempo di Fossati. Tutto ciò sempre con quella non voce che riesce tuttavia a trasmettere forti emozioni, come quando si rigoverna il passato dell’infanzia e vengono fuori flash di ricordi che credevamo scomparsi ma che, sollecitati, chiedono strada tutta per sé. Alla fine la voce è solo il mezzo per propagare ciò che si ha dentro, ed evidentemente ciò che Mattiello ha dentro è venuto fuori in ogni momento della piacevole serata conviviale. L’urgenza di comunicare tutta quella passione per la musica e il teatro, contagiando inevitabilmente ogni spettatore, scaturisce naturalmente da questa persona gentile. La gentilezza, rarità che va elogiata, fertilizzata, coltivata e fruita, e invece così negletta oggi, dove l’urlo e la prevaricazione sono i protagonisti assoluti e provocano un rumore di fondo molesto e difficilmente estinguibile. Gentilezza che può solamente giungere attraverso vere canzoni ben strutturate e non da frammenti di stilemi o ritmi o rap come ciò che inquina le nostre orecchie attualmente. La gentilezza, cifra dominante di Mattiello e delle persone che sono intervenute a leggere le lettere di attori, autori e registi che hanno collaborato e collaboreranno nella stagione teatrale, è la chiave comunicativa, in generale. Un uomo comune, che comune non è affatto, che insieme ad altri gentili propone una coccola collettiva per il teatro, un patrimonio dell’umanità che viene spesso snobbato, almeno nella nostra terra. A Maiorca, l’isola baleare, mi capitò di parlare con amici locali che mi svelarono che in tutta l’isola c’erano oltre cinquanta compagnie teatrali, sia professionali che amatoriali. Cinquanta. Per un’isola che non fa un milione di abitanti. Esattamente quanti ne ha il comune di Napoli che non ha di certo cinquanta compagnie teatrali.
Da noi Greci e i Romani costruivano sia i teatri che gli stadi. Attualmente in Italia si producono più stadi che teatri, anzi spesso questi ultimi si chiudono, obsolete reliquie di qualcosa d’indefinito che va tenuto nascosto come la polvere sotto il tappeto.
Ecco la funzione del treno Ichòs, che però spegnerà le sue luci serenamente e finirà, non cacciato da nessuno ma esaurendo la sua corsa. Non farà come la locomotiva di Guccini, che esploderà come un vulcano nell’impatto fatale, ma forse l’energia, che la legge di Lavoisier mostra come non si disperda mai, si ritroverà nell’amore per il teatro che Ichòs Zoe ha seminato in vent’anni di attività.
Spiega Mattiello: “Il motivo per cui cessiamo la nostra attività credo sia tutto nel diciottesimo desiderio della lista di Orge – Lista dei desideri di Orge di Bertolt Brecht, esibita nel manifesto scritto a mano e apposto all’ingresso della Sala Ichòs, con alcuni desideri sottolineati – “Dei messaggi, il messaggero”. Essere ovvero dei messaggeri forti vigorosi opportuni. Sentire di non esserlo più non ci avrebbe consentito di continuare a fare bene quello che sappiamo e sentiamo di aver fatto bene in questi vent’anni. Bisogna immaginarsi forti per compiere nella realtà il gesto di esserlo. In questo senso l’immaginazione è il massimo della realtà possibile.”
Nonostante il rispetto dell’esplicita e disarmante, lucida volontà del mago dell’Ichòs, ci auguriamo un ripensamento finale o, forse, la trasformazione in qualcosa di nuovo e anche più coinvolgente. Altrimenti sarebbe, in ogni caso, una grande perdita.
© Ottobre 2019 Massimo Crispi
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