Il Borghese gentiluomo e l’impossibilità della lotta di classe
Forse non è un caso che, a metà degli anni Ottanta, Carlo Cecchi – uno dei nostri grandi “inventori” di Molière – avesse collocato l’allestimento di Il Borghese gentiluomo tra una regia di Pinter e una di Scarpetta. Ovvero l’incomunicabilità concettuale del non-detto pinteriana si confrontava con la pura farsa napoletana. La commedia di Molière, forse, è proprio questo: un impossibilità di dire assieme alla più ridanciana caricatura e satira sociale.
Si sa, al genio di Molière piaceva far beffe, spalleggiato dal Re Sole, delle paturnie e delle piccinerie di Corte: qua se la prendeva, acutamente, con gli arrampicatori sociali, con quei borghesi che aspiravano al titolo, con gli arricchiti che si spacciavano per nobili e, al tempo stesso, con quei nobili spiantati e morti di fame che non sapevano come arrivare a sera. Oltre la risata, oltre la farsa, vi era una pungente denuncia, ne Il Boghese gentiluomo, affidata o forse riassunta in una battuta indicativa, e la dice il giovane Cleonte: «Molti si appropriano con disinvoltura di un titolo. Quasi nessuno se ne fa scrupolo; e l’uso odierno sembra autorizzarne l’usurpazione. Da parte mia confesso ho in materia una sensibilità un po’ più delicata: reputo qualsiasi impostura indegna di un galantuomo. È da vili camuffare la condizione in cui il cielo ci ha fatti nascere; pavoneggiarsi agli occhi della gente di un titolo rubato; volersi far passare per quello che non si è».
È l’impostura, dunque, il grande soggetto della commedia: come per Tartufo, infatti, qui ci si vuole spacciare per altro o per altri. Comprando, a suon di mance e mazzette, non solo il titolo, ma lo status symbol, ovvero l’identità.
Molière metteva in cortocircuito due classi sociali ben distinte, facilmente identificabili: borghesia e aristocrazia sarebbero arrivate, di lì a poco, a risolvere il proprio conflitto a colpi di ghigliottina. Eppure già nel 1670, anno in cui la commedia andò in scena su musiche di Lully, di fronte alla corte, la questione era aperta. Ovvero la lotta di classe cominciava a dipanare le sue orride possibilità.
E oggi?
Filippo Dini, da par suo, usando la traduzione che ne fece Cesare Garboli, ha ripreso il testo di Molière per il Teatro Stabile di Genova e per il Teatro Due di Parma, coproduttori in una impresa che fa seguito al felice Ivanov della passata stagione. Dini, con un’eccellente compagnia, si impossessa del testo, svelandone punti di forza e di debolezza.
Il fatto è che oggi, allora, quella lotta di classe non è più possibile: borghesia e nobiltà non esistono più, e ricchi e poveri si inseguono, in un movimento circolare, all’insegna di una somiglianza che tutto vira al “cafone”. Tra gli status symbol di personaggi discutibili come Lapo Elkan o Fabrizio Corona e l’ultimo dei borgatari di periferia c’è una identificazione possibile nel tatuaggio, nel vestire trash, nella volgarità o nell’ignoranza fatta sistema. Invece, fa quasi tenerezza questo Monsieur Jourdain, per la buona volontà con cui si applica, zelante e generoso, per apprendere tutto ciò potrebbe farlo ben figurare in “società”. Forse, chissà, i neo arricchiti russi, che invadono la bellezza a colpi di yacht e festini, i petrolieri arabi che si comprano il Louvre sono varianti contemporanee della tendenza che Molière fece incarnare dal protagonista della farsa.
Jourdain, generoso e ingenuo, ha un sogno e lo dice chiaramente: c’è un istante in cui – truffato e inconsapevole – si trova ad avere a che fare con i nobili: “mai mi ero sentito così pieno di spirito”, dice più o meno, ovvero mai ero stato così bene. Il suo sogno potrebbe realizzarsi, la sua ossessione trovare compimento, e per quell’istante di felicità è pronto a tutto. Gli altri se ne approfittano: a partire dai sedicenti maestri – di musica, di ballo, di scherma o di filosofia – passando, ovviamente per quel nobile filibustiero che gli spilla quattrini. La moglie lo avverte, la figlia si ribella, ma Jourdain tira dritto nel suo sogno, fino a che non dovrà pagarne, pesantemente, il prezzo.
Verrà truffato definitivamente, con un mascheramento degno di Miseria e Nobilità, Jourdain è raggirato da una banda di “turchi”, che gli impongono una soluzione diversa rispetto ai suoi piani. La trama del Borghese gentiluomo è lasca, ma la metafora forte, e dietro la comicità c’è – come spesso accade in Molière – quella “tragedia di un uomo ridicolo” di chi è vittima di se stesso.
Dini acconcia la commedia sui toni della farsa sparata, in un vortice di caricature – talune troppo forzate – che pure hanno gran resa rispetto al pubblico. Si ride delle macchiette aspre disegnate da Molière. In questa galleria di mostri, sembra non salvarsi nessuno, se non forse – con una sterzata notevole nel clima dell’opera – proprio la gentildonna che Jourdain sogna, la Marchesa Dorimene che (nella vibrante interpretazione di Sara Bertelà) diventa una sorta di cechoviana, languida ed erotica figura di rara umanità; o la solida e pratica Madame Jourdain (brava Orietta Notari) che tiene salda la sua origine borghese.
Gli altri, invece, sono mezze tacche discutibili o figure quasi da cartone animato, cui danno buona caratterizzazione, anche in più ruoli, Davide Lorino (che gassmaneggia ironicamente come maestro di musica), Valeria Angelozzi nel ruolo della figlia, e ancora Ivan Zerbinati, Ilaria Falini, Roberto Serpi, Antonio Zavatteri (ottimo come maestro di filosofia).
Poi, su tutti, c’è lui, Monsieur Jourdain: Filippo Dini ne dà un ritratto puro, aderente, ingenuo, ponendolo giustamente al centro della vicenda. Il rischio – che ho avvertito – è che lo “salvi” eccessivamente rispetto alla smaccata e palese negatività degli altri, togliendone conseguentemente il coté livido, malato e tragico. Salvandolo, e dando anche così risalto a Dorimene, lo spettacolo pare acconsentire, seppure lateralmente, alla “invidia di classe” sottesa al testo, legittimando l’aspirazione di “essere come loro” di Jourdain. Ma l’esito di tale desiderio sarà frustrato e vieppiù grottesco. E Jourdain, con in testa una corona che è uno scolapasta rovesciato e illuminato da candele degno di Ubu, rimarrà punito mentre gli altri festeggiano: del grossolano sogno del Borghese gentiluomo non resta nulla, una farsaccia che si fa incubo. Avrebbe potuto, paradossalmente, essere un rivoluzionario sui generis, il gentiluomo di Dini, qualcuno che scardina l’ordine sociale, invece, alla fine, si rientra nei ranghi, la società non si scuote, gli ambiziosi perdono e i “nobili” – di spirito o meno – si salvano. Meglio riderci su.
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