Fabrizio Sinisi è giovane, ma il suo nome circola già da tempo nel mondo del teatro italiano. È quello che si dice un “drammaturgo”, un autore dalla cifra inquieta e interessante. A giorni vedremo un suo testo, Natura morta con attori, nella bella rassegna Tramedautore al Piccolo di Milano. Ma Sinisi è anche un “dramaturg”, senza la “o” finale, alla tedesca, dal momento che lavora fianco a fianco con registi di livello, prestando la sua scrittura alla rielaborazione di testi classici o contemporanei nella prospettiva dell’allestimento.
Incontriamo Fabrizio durante le prove di Natura morta con attori: in scena due formidabili interpreti, Alessandro Averone e Federica Sandrini, diretti con garbo da Alessandro Machia.
Naturale, allora, aprire questa conversazione chiedendo a Fabrizio Sinisi cosa voglia dire essere un “giovane autore”, che appartiene ancora alla categoria degli under30, nel teatro italiano…
«Da un punto di vista politico, nel senso onnicomprensivo del termine “politico”, scrivere per il teatro è un atto di ribellione. Assistiamo a una museizzazione del nostro teatro e dunque scrivere una parola nuova, o quanto meno provare a farlo, è sempre un atto anti sistemico. Da un punto di vista stilistico, o linguistico, poi, è per me una questione fondante: si tratta, infatti, di scegliere che lingua usare».
Che lingua parla il teatro italiano?
«Vedo prevalentemente due tendenze. La prima è quella che riprende un po’ il teatro all’inglese: ne riconosco il valore ma non mi ci ritrovo. Si tratta, infatti, di un modo di far funzionar la lingua per reazioni, che pone molta fiducia su un attore “reattivo”, appunto. Una lingua basata, insomma, su temperature psicologiche, sul non detto, sui silenzi. È la grane lezione di Harold Pinter, cui molti autori italiani si sono ispirati. Per quel che mi riguarda, non mi ci ritrovo e penso anzi che il teatro italiano abbia solo da perderci. Non credo che la nostra lingua sia fatta per quel genere di comunicazione. L’italiano è una lingua non nata dal parlato. Torniamo ancora alla vecchia questione linguistica: l’italiano è nato dalla letteratura, non dall’uso quotidiano. Dunque cercare di parlare il “quotidiano”, senza parlare i dialetti, è una operazione grottesca. Tanto che, quando in Italia si è fatto grande teatro naturalistico – pensiamo anche a Eduardo De Filippo – abbiamo fatto ricorso giustamente ai dialetti. Diverso invece quanto accade in Inghilterra o Francia. L’altra tendenza, che mi interessa di più, si basa invece sul riconoscere il carattere letterario, melodico, musicale, della nostra lingua. Una lingua adatta ad esprimere più i concetti che non la psicologia, più i suoni che non il non-detto. Qual è la lingua, il linguaggio, in cui l’italia è grande? La poesia, il linguaggio d’Opera. Tutto il contrario del naturalismo…Preferisco, dunque, lavorare partendo da questa coscienza. E amo quel teatro che cerca di estremizzare il fatto che la lingua non si presta a un uso naturale».
Ma non c’è rischio di perdere il contatto con la realtà?
«Chiediamoci quale sia la specificità del teatro, per cui è un mezzo di conoscenza indispensabile. La conoscenza della cronaca è offerta da mille mezzi migliori del teatro, dal video al racconto narrativo. Il teatro può attraversare il vissuto con strumenti propri: tra cui, dunque, questa dimensione poetica, a-temporale, che ci pone in un altro punto di vista. Quindi la lingua deve essere teatrale. La sfida potrebbe esser prendere fatti di cronaca e guardarli come solo il teatro può fare».
Torniamo a Brecth? A Peter Weiss?
«Si, anche. Per arrivare però a Pier Paolo Pasolini. Ovvero a un teatro che a attraversa il presente diagonalmente, trasversalmente, non in modo fotografico. C’è una verità del nostro tempo che solo il teatro può verificare, perché è la messa alla prova dell’umano: l’umano nella storia è sempre qui e ora. Solo in teatro puoi raccontare il mistero della realtà senza limitarti a descriverlo, ma lasciando che rimanga mistero. I Persiani di Eschilo sono un’opera che interpella il suo tempo più di quanto magari certo cosiddetto “teatro di denuncia” faccia con il nostro. Il come farlo è la nostra sfida continua, ma credo che il teatro possa vivere solo se la posta in gioco è questa urgenza, di dire insomma sempre e su ogni cosa “tutta la verità, nient’altro che la verità”».
Lei ha lavorato molto con registi come Federico Tiezzi o Gianpiero Borgia, affiancandoli nell’allestimento di testi “classici”. Che differenza c’è tra fare il “dramaturg” o l’autore?
«Me lo chiedo anche io. Che significa fare il dramaturg in Italia? Sappiamo cosa fa nel teatro tedesco. Ma da noi? Per come lavoro, con la compagnia di Federico Tiezzi – un regista che ha un tale livello di cultura e una poetica precisa, solida – si tratta di occuparsi di un tema pensato dal regista, di lavori su quel testo, a seconda del tema da lui individuate. Appare così che Pirandello, Pasolini, sono legati da un filo tematico, di poetica. Come autore, invece, hai una smodata libertà – dovuta al fatto che l’autore è completamente al di fuori sistema del sistema teatrale – che ti consente di fare quel che vuoi».
Con Gianpiero Borgia avere reinventato La locandiera e Gl’Innamorati di Carlo Goldoni. Come è andata?
«Due lavori che sono un piccolo spicchio di una operazione più ampia, che potrebbe essere affrontata anche da altri: il patrimonio goldoniano, come quello pirandelliano, è un “luogo” che ha coordinate storiche e sociali, e che puoi provare a spostare, per gioco o divertimento. Goldoni presenta una situazione di borghesia veneziana settecentesca. Per gioco, provi a traslare tutto, ponendoti delle domande: cosa è oggi la borghesia? Quella goldoniana era in ascesa, ricca, desiderosa di strumenti. Il cui elemento paradigmatico era la figura della donna. Ma oggi? Dobbiamo chiederci cosa sia la borghesia oggi, come si comporta il nostro tempo nei confronti del denaro, chi sono le donne oggi. Al di là degli strumenti, possiamo stabilire delle geometrie più precise per quel “luogo”. Anziché rifare il patrimonio drammaturgico, affidandolo solo alle invenzioni o ai salti mortali dei registi, mi sembra più affascinante che le rivisitazioni dei “classici” siano affidate a drammaturghi: non “riletture”, ma re-invenzioni vere e proprie, con nuove coordinate».
Che rapporto ha con i registi?
«Dipende dal regista, ovviamente, e da quanto ti fidi. Ma io non faccio il lavoro del regista. Penso sia sano per un autore affidarsi a un regista, e non mettersi in scena da solo. Lo spettacolo è opera del regista, e si serve del testo come uno dei tanti elementi. Io alzo le mani, al massimo spiego il testo. Resto padrone del testo, ma lo spettacolo è degli attori e del regista».
Parliamo di Natura morta con attori. Che testo è?
«A giorni saremo in scena a Milano, prossimamente a Lugano. È una storia nata dalla grande sintonia artistica con Alessandro Machia, una persona e un regista di grande livello e qualità. Sono partito da una questione ineludibile del mio scrivere teatro: ovvero dal fatto che in scena vanno gli attori e non i personaggi. In scena va l’attore, con una propria storia e fisionomia, e tu gli dai delle parole che interagiscono con l’altro attore. Allora, torna la curiosità nei confronti del linguaggio, qualcosa che usiamo come strumento ma con il quale non ci identifichiamo, non siamo noi. Descrivi te stesso con strumenti che ti hanno dato, che ti danno sin dalla nascita: ma chi è sincero? Diciamo quel che pensiamo sia vero, ma non la verità. Siamo sempre in lotta con il linguaggio. La parola “amore” è un termine convenzionale che ha mille correlati di significati, diversi per ciascuno di noi. E mi interessava dunque verificare il rapporto con il linguaggio nella casa del linguaggio che è il teatro. Il teatro può essere lo spazio in cui si elabora una lingua nazionale. Hai uno spazio di sperimentazione linguistica molto ampio, dove la lingua può riflettere su se stessa La questione linguistica è quindi centrale anche in questo testo. La lingua nel suo rapporto con il presente. Pensiamo ancora alla poesia: una lingua che nessuno usa nella quotidianità ma con cui possiamo dire una infinità di cose. È un paradosso interessante da portare a teatro, quello di arrivare a poter “dire tutto”. Come avveniva, del resto, nel teatro elisabettiano: senza soldi, senza scena, lavoravano sulla parola e sull’attore. Ma dove esiste una spericolatezza linguistica, servono attori altrettanto spericolati, capaci cioè di gestire quel linguaggio. Un tipo di attore che sia in grado di capire che la performance è un fatto fisico e di linguaggio. Un attore che sa dire una posia, che fa accadere la poesia, sta facendo una performance. Il linguaggio non deve essere portato ma fatto accadere in scena. E Averone e Sandrini sono ottimi attori, capaci di farlo.
Come lavora?
«Scrivo a mano, prima e seconda stesura. Sempre a mano, altrimenti perdo il rapporto fisico con la pagina e la scrittura. Poi scrivo in versi. Seguendo intuizioni linguistiche o di immagine. Inseguo dettagli, frammenti lirici, da cui parto cercando di scoprire se c’è qualcosa sotto, se sono la punta di un icerberg o meno».
Progetti futuri?
«E se poi non si realizzano? Non li dico! Scherzi a parte, posso raccontare con piacere che sto iniziando una collaborazione con il Teatro degli Incamminati e il Centro Teatrale Bresciano: farò con loro una mia riscrittura del Dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson e soprattutto una trilogia, a cui tengo molto, sul terrorismo islamista in Occidente. Gli altri progetti appunto non li dico per scaramanzia, se li dici in giro poi finisce che non si fanno più».
(nella foto di copertina, Sandro Lombardi in Calderon, regia di Federico Tiezzi, drammaturgia Tiezzi, Sinisi, Lombardi)
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