Per ricordare Cristina Pezzoli

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14 Giugno 2020

Ho provato a scriverne.

Cristina Pezzoli, una delle nostre grandi registe, se ne è andata lo scorso 22 maggio. E ho provato a ricordare i suoi lavori, a darne un ritratto critico, a dar conto dell’incredibile lavoro che ha fatto sulle scene italiane. Donna di grande temperamento, forza, determinazione, simpatia, e pure attenta sempre a una cifra poetica, umanissima, sensibile, Pezzoli ha firmato regie di alto valore e ha creato progetti estremamente significativi.

Ma quelle nostre parole suonavano sempre fredde, retoriche, banali. Allora, meglio lasciare perdere e provare altre strade, che hanno maggior senso. Assieme a Sara Bertelà, abbiamo dunque pensato di dar voce a quanti hanno lavorato con lei. E abbiamo iniziato a raccogliere brevi testimonianze, ricordi, suggestioni. Intanto sono voci tutte “al femminile”, nelle certezza che altre parole arriveranno a tessere un ritratto umano e artistico di questa regista che, nella sua “itineranza” teatrale, ha costruito attorno a sé una comunità di attrici e attori, con cui ha condiviso creazioni e pensieri.

Allieva di Massimo Castri – un altro gigante del nostro teatro, troppo in fretta dimenticato – Cristina Pezzoli avrebbe meritato certo maggiore attenzione e maggiori riconoscimenti: la direzione di un teatro nazionale (un teatro stabile, come si diceva una volta) sarebbe stato decisamente consono alla sua forza, alla sua cultura, e alla sua visionarietà. Ma si sa: una donna, indipendente e di carattere, rischia di essere pericolosa nel sistema consolidato. Allora, la nostra breve analisi critica si limita – certo non sufficiente – a colmare parte di questo debito che il teatro italiano ha nei confronti di Cristina. Se ne è andata presto, maledettamente presto, Cristina Pezzoli. Ma resta nei cuori di molte e molti. E in queste parole che la restituiscono, solo per poco, a tutti noi:

 

Sonia Antinori

Mi innamorai di Cristina vedendola lavorare. Ero finita affianco a lei nel ruolo di assistente alla regia per l’improbabile dotazione del “Premio Tondelli” numero zero, che intendeva formare giovani autori al teatro con una gavetta nelle compagnie primarie. Era il 1993. Io ero stata assegnata a quella di Sergio Fantoni per l’allestimento di Come le foglie. Lei mi aveva guardato di sguincio, accettando la mia presenza un po’ a malincuore. Oggi, dopo tanti anni, ripensando a quei cinque spettacoli fatti insieme, in cui la guardavo impastare le storie con quelle creature di pane che sembrava animare di un soffio, ho come la sensazione di aver spiato una bottega d’incantesimi. A fatica recupero memorie concrete di quei momenti, come si fosse trattato di un altro stato di coscienza, perché delle scoperte su palco mi drogavo letteralmente, così che le impressioni che riaffiorano ora hanno la qualità dei sogni. E sono i dettagli che mi appaiono più vividi, mentre l’insieme è sfocato dalla nebbia necessaria della distanza. Molti sono particolari concreti: il cerchietto di raso marrone drappeggiato che le teneva i capelli, le mani piccole e affusolate che ruotava con gli indici puntati verso l’alto. O quel suo modo di contemplare la prova, inginocchiata sul palco. Ricordo con nitidezza un camicione bianco e nero. C’era un che di esoterico nel suo fare: al di là della ferrea concretezza padana, della fierezza della volontà, c’era l’ossessione, il lato oscuro e fragile. Una malinconia latente, che spostava il dialogo in territori profondi e fangosi, dove si schiudevano assonanze identitarie, si scatenavano possessioni antiche. Cristina era la madre che io non ho voluto essere, era terra, radice. E così come le sono stata fedele, così l’ho abbandonata, il giorno che ho sentito che il nostro gioco si era esaurito. Forse saranno in molti a sentirsi così, sperduti, come si resta alla notizia della morte di un amore di gioventù.

 

Maria Ariis

Ci provo, anche se non sono brava a trasformare in parola scritta le emozioni dei ricordi, anche se la situazione di questi strani giorni, la morte ravvicinata di due persone come Sergio Fantoni e Cristina, che sono state e sono parte di me, mi ha provocato, oltre a un grande dispiacere, dei veri sommovimenti tellurici nell’anima, così profondi da rendermi un po’ afasica… Ma questa è la vita…
Ho collaborato con Cristina in contesti produttivi molto diversi tra loro (istituzionali, di ricerca e quelli «sotto lo stato di povertà») e la cosa costante che ricordo di lei come artista era la sua capacità di condurti (perché il suo gesto registico era sempre maieutico) a innamorarti del pericolo dello stare in scena. Il risultato formale, sebbene studiato e accurato, era secondario rispetto alla ricerca di questo stato, che aveva come effetti collaterali la creazione di gruppi di lavoro molto coesi, in qualche modo innamorati (parola che ritorna…), con il dolore e il piacere che l’innamoramento comporta, e una relazione generosa e sincera con il pubblico. I miei ricordi appartengono a diversi anni fa, il periodo in cui lei e gli attori che lavoravano con lei si stavano formando professionalmente, ma credo che il suo successivo percorso non abbia, in fondo, cambiato direzione.

 

Sonia Bergamasco

Ho conosciuto Cristina quando era ancora regista assistente di Massimo Castri. Ero alle mie prime esperienze di teatro, e la sua presenza radiosa mi colpì profondamente. Una testa di ricci selvatici che non conosceva ostacoli: una vitalità affamata, uno spirito libero. Tanti dei miei compagni di lavoro dei primi anni di teatro provenivano dalla sua stessa scuola, la Civica di Milano, e insieme ci siamo trovati per cercare di dare forma a un’idea di teatro collettiva, sotto la guida di Cristina. Ricordo un’estate di prove a Fontanellato, attorno a spunti drammaturgici ricavati dalla Tragedia spagnola di Thomas Kyd. Molti anni dopo, l’ho rivista a Pistoia – la città in cui si era trasferita – dove avevo alcune date di tournée di un mio spettacolo. L’ho ritrovata come se il tempo non fosse trascorso. Il suo sguardo acuto, la passione per la diversità, il suo interrogarsi, sempre, instancabilmente. Il suo non arrendersi mai. In lei ho sempre amato la parte migliore di noi tutte, attrici e registe di teatro e di cinema – una rivendicazione creativa immersa nel flusso della vita e delle idee. Grazie, Cristina!

 

Sara Bertelà

Mi manchi Cristina, vorrei un altro incontro, dietro alla Stazione di Prato, non lontano dal fiume. E ho letto un verso che mi parla di te,

Come è libera la luce!

                                 se ne frega 

È un verso di Ludovica Ripa Di Meana, del suo ultimo libro* (sul comodino). Mi parla della tua libertà dell’essere e dell’agire, nella vita e nell’arte. Tu, leonessa indomita (sempre così ti ho vista nel mio pensarti), libera e spregiudicata, sprezzante del giudizio precostituito, anticonvenzionale, coraggiosa, irriverente. Ecco Cristina, vorrei somigliarti un po’. Dominata da una curiosità incandescente spingevi noi, tuoi compagni di viaggio, verso una ricerca spasmodica, per raggiungere un confine sempre nuovo. Istigati da te cercavamo il nocciolo di noi stessi, anzi i noccioli, su cui fondare nuovi germogli creativi. Eravamo sempre alla ricerca di un senso che ci accomunasse.

E tutto questo giocando, infatti «in sostanza e verità, tutto questo non è nient’altro che un gioco»** (grazie Elsa.)

La tua tenacia mi ha sempre entusiasmata, mai spaventata. Poi ci siamo perse per un po’. A tratti ritrovate. Nel frattempo sei diventata una vera combattente delle false coscienze, del sistema teatrale. E una Maestra. Ecco io ora vorrei assumermi tutte queste parole che provengono da te nel Tempo, e portarle con me. Per portarti con me.

(*Voi non sapete che non ho paura, Ludovica Ripa di Meana, Garzanti; ** Il Mondo Salvato dai ragazzini, Elsa Morante, Einaudi)

 

Nanà Cecchi

Penso a Cristina e la vedo accovacciata al centro del proscenio, esattamente al centro, le gambe incrociate, la schiena dritta, immobile. Una sagoma in controluce che emana concentrazione, tensione, massima attenzione. Sembrerebbe una statua di Buddha, se non fosse per la sua ricchissima chioma a cascata sulle spalle, un’aureola quasi leonina. E del leone Cristina ha tutta la forza. Conosce a memoria il testo che mette in scena, parola per parola, dall’inizio alla fine, (mi ha sempre impressionato per questo) e, come per il lavoro con gli attori, fin dalla prima ricerca del segno di rappresentazione, insegue un immaginario che affonda le sue radici nella concretezza della parola e dei fatti ma poi vola nella foresta dei simboli e dei significati, senza perdere di vista la fisicità della vita, del vivere. La verità del testo. Lei stessa è una mescolanza tra ragione e istinto. Mi sono sempre domandata come diavolo potesse esprimere l’inesprimibile con un eloquio così lucido e razionale. A volte, un fiume in piena che scorre dentro argini sicuri. Le sue origini forse sono la risposta: un connubio interessante tra nord e sud, quello dei suoi genitori. Un vero regalo per lei che mescola i due mondi opposti. Cristina ha un’altra relazione speciale che impone a chiunque le sia accanto nella palestra del teatro, ed è quella con il tempo. La sua resistenza al lavoro va spesso oltre la misura della normalità, ma è lei stessa a testimoniare con la sua perseveranza che il rapporto con il tempo si modella sulla necessità di raggiungere una sponda e che bisogna continuare a navigare con qualunque mare, avendo negli occhi il profilo dell’orizzonte sognato. Sempre. Ho conosciuto Cristina in un momento molto speciale della mia vita. Era la primavera del 1992. Mi trovavo già da un mese al St Luke’s Hospital nel Texas Heart Institute di Houston per assistere mio padre nella delicatissima fase post operatoria di un difficile intervento chirurgico. Le apprensioni di ogni giorno sulle complicazioni che insorgevano e l’attenzione sulle varie cure mediche avevano bandito per me qualunque altra realtà che non fosse la salute di mio padre. Non esisteva altro. In quel punto appare Cristina. Una voce dall’altra parte del mondo, in tutti i sensi: mi parla di due atti unici da mettere in scena per il Festival di Spoleto nel giugno seguente. La sua voce è solida e positiva, diventa subito un’alleata che mi risveglia alla capacità di immaginare. In seguito, dopo la lettura dei testi inviati via fax, si era riaccesa la scintilla dell’ispirazione con mio sommo stupore, date le circostanze in cui mi trovavo, e non fu difficile cogliere il riferimento figurativo per legare i due lavori insieme. Non dimenticherò mai la naturalezza di quelle nostre prime conversazioni telefoniche e, a ripensarci oggi, avevo la sensazione che Cristina fosse lì, a Houston, a pochi isolati di distanza da me. E non dall’altra parte dell’oceano…

Quando finalmente ci incontrammo di persona, ritrovai all’istante quello che avevo percepito di lei durante il mio esilio americano. Negli anni di lavoro insieme, ho conosciuto e apprezzato i suoi talenti ma soprattutto la sua anima forte, coraggiosa, dirompente, tenace, in continuo movimento, in continua ricerca. In teatro e nella vita. Un’anima lucida ed esplosiva. Un’anima antica. Cara, carissima Cristina.

(I due atti unici erano: La rivolta di Villiers-de-l’Isle-Adam e Baccanale di Arthur Schnitzler; prodotti dal Teatro Due per il Festival dei Due Mondi, Spoleto 1992).

 

Maddalena Crippa

Cristina, ti rivedo in un giorno di sole venirmi incontro con la massa dei tuoi riccioli fermati dal cerchietto, le fossette a lato del tuo sorriso per il primo incontro dei tanti lavori che ci avrebbero unite insieme. Porterò per sempre nel cuore la tua passione, il tuo coraggio, la tua forza generatrice, la tua instancabile energia combattiva, la capacità di motivare un gruppo di attori. La tua arte era proprio il lavoro con gli attori. Lavorare con te è stata una delle esperienze più importanti ed entusiasmanti del mio percorso di attrice. Unico rammarico di una così forte esperienza è che non sia continuata e sviluppata anche sul piano umano.

da sin: Elisabetta Pozzi, Maddalena Crippa, Cristina Pezzoli

 

Laura Curino

Non ti molla un attimo. Non molla nessuno. Non ti molla nel senso che non ti dà tregua, e ti vien voglia di urlare: «Basta! Ho fame, sete, sonno, sono stanca, stiamo provando questa scena da ore e adesso vuoi cambiarla tutta!». Ma stai zitta e non fiati, perché lei è una che non ti molla anche quando sei nei guai. È disposta a venire in teatro con te due ore prima per aiutarti a trovare una soluzione, per farti capire un passaggio difficile, per farti vedere le cose da un altro punto di vista. Per questo la stimi e le vuoi bene. E la assecondi. Lei ha una energia travolgente e non smette mai. Tu fai pausa. Lei parla con la scenografa o i musicisti o la produzione. Si ferma solo in un caso: se sono i suoi figli a telefonare. Magari sta discutendo aspramente con qualcuno di massimi sistemi ed ecco che con lo stesso fervore, ma a voce più bassa, cerca di risolvere il problema di un quaderno di scuola non restituito in tempo, o gli orari di rientro serale, o quella maglietta dove è finita. E poi, chiusa la telefonata, riprende con il volume di prima a lavorare, fino a che non ci buttano fuori dal teatro. Mentre si spengono le luci, lei raccatta l’enorme borsa di turno, si sentono i passi dei suoi sandali o degli anfibi, (tacchi alti e grandi, sempre), in un attimo è già fuori e si vede la superba massa di capelli afro biondi che si piega di lato perché sta già chiamando casa.

 

Paola Donati

Cristina, “un nastro di seta attorno a una bomba”. Vorrei tanto credere alla frase “le persone non muoiono, rimangono incantate”, un’immagine straordinaria che, facendo bene all’anima, allevia momentaneamente la fatica di accettare il non trattenere a sé chi se ne va. Oggi, niente consolazione, nessuna immagine potente delle mille che in questi giorni si sono affastellate. Quasi dieci anni di teatro insieme a dilatare il tempo, a provare a intensificare la vita senza nascondere il dolore, la passione, la ragione, la mancanza, l’ossessione, l’idea e la paura della morte da trasformare in atto di creazione tutti i giorni. La prima volta che ti ho conosciuto ero incinta e si vedeva. Sono entrata in Piccola Sala che avevate (con Francesco Migliaccio, Mauro Malinverno e Gigi Croce) riempito di rifiuti presi in discarica. Su un tavolo stava disteso e nudo Maurino. Francesco lavava con una spugna il corpo del morto, lentamente, con meticolosità. Al mio ingresso, Asko, un pastore tedesco da cui non ti separavi mai – e che qualche tempo dopo avrebbe cercato di mordere il braccio di mia figlia salvata in extremis! –, si era alzato nel buio abbaiando ferocemente e spaventandomi a morte. A morte, appunto. Come un Cerbero ma con un’unica testa… 1989, la creazione si intitolava Novena breve e, dopo Paura del buio, era il tuo secondo lavoro da regista. Non so se il Teatro Due di Parma sia stato per te una “dimora del tempo sospeso” per dirla con Jabès da cui all’epoca eri rimasta affascinata. Il tempo dello studio e della dedica necessari alla creazione – quello che manca sempre e sui perché ora non mi soffermo – con te ce lo siamo dati e quando non c’era l’abbiamo inventato anche coinvolgendo e convincendo altri, qualche volta a tradimento… Per te, come per noi , il processo è sempre stato più importante del risultato finale, dello spettacolo; le domande più urgenti delle risposte. Una gitana sempre in movimento che forse di una casa “per sempre” non sapeva che farsene. L’ultima volta che ci siamo viste a un incontro al Piccolo Teatro per parlare de L’Attesa e di Remo Binosi hai detto pubblicamente che avevi nostalgia di quel periodo e ti sei messa a raccontare con calma e fermezza i perché. Sembrava li richiamassi a te stessa, mentre mi guardavi per farti credere e abbiamo sorriso, nella naturale complicità del momento. Sono sincera, Cristina: troppe morti portano via anche le parole e non so più se basterà l’apertura, l’ascolto e il continuare a “mettersi scomodi” per riuscire a crearne di nuove.

Carla Manzon

Mi sento in grave imbarazzo perché come potrei io riassumere in una frase o poco più anni travolgenti, emozionanti e artisticamente esaltanti come quelli passati insieme a Massimo Castri e a Cristina Pezzoli? Abbiamo fatto tre anni insieme alla Civica del Piccolo, appena diplomate sono stata la prima insieme ai miei compagni – fratelli Francesco Migliaccio, Mauro Malinverno e Paola Salvi a fare Paura del buio  (prima regia di Cristina), al Festival di Montalcino, abbiamo condiviso la sua frenetica ricerca, affannosa in alcuni momenti, che a me ha sempre ricordato una sua personale fuga disperata dalla morte ( tema che l’aveva segnata profondamente fin dalla giovinezza, essendo lei scampata a un precedente tumore che l’aveva afflitta prima che incominciasse la scuola con noi).
E’ stata una compagna, non mi viene altro termine, perdoni, in tutti i sensi per parecchi anni. Una compagna anche nel significato politico del termine, quando la condivisione e i temi che riguardavano la società, forse erano sentiti in maniera più profonda di oggi. Abbiamo fatto alcuni spettacoli memorabili insieme ( e non parlo solamente dell’Attesa e di Lungo pranzo di Natale, ma anche di esperimenti come La tragedia Spagnola, i tre anni di Progetto Euripide) e resta il rammarico di non aver potuto mettere in scena Le tre sorelle. Il cast che aveva coinvolto Cristina era composto dai migliori attori giovani italiani del tempo.
Non sono solo ricordi di imprese teatrali, ma anche personali: lei col pancione, la prima volta che abbiamo visto la sua primogenita (eravamo al Piccolo con L’Attesa), i viaggi in macchina in quattro con il cane! La Volvo carica di scenografie e di persone, la cagna che mi regalò che chiamammo Chachacha,  il desiderio di prendere una cascina per farci una casa per il nostro teatro, sognavamo di cambiarlo il Teatro e sicuramente lei era una leader forte, con un’energia potente come quella delle dee antiche…
Con Cris sparisce una larga fetta della mia gioventù,  e ogni giorno mi sento più triste sapendo che lei non è più qui per poter fare da madre ai suoi ragazzi e andare in teatro a sperimentare nuove strade  con gli attori e i giovani drammaturghi. Che dirle di più, forse mi sono dilungata anche troppo, resta la tristezza ulteriore che non abbiamo potuto partecipare al suo funerale, visto questo periodo maledetto e questo anno orribile che nel giro di pochi giorni mi ha portato via due maestri e due persone amiche: Sergio Fantoni e Cristina.

Milvia Marigliano

Cristina me la sono cercata e acchiappata con tutte le mie forze. L’ho cercata per telefono tutti i giorni per un mese mentre giravo con il mio primo monologo Muse Napolitane (Basile, Viviani, Moscato: e il titolo scelto dallo stesso Enzo, le egloghe di Basile appunto). E Cristina venne a vedermi. Ero così felice e eccitata! Me lo ricordo come se fosse ieri. Sono passati quasi vent’anni. Sapevo del lavoro prezioso, intenso che faceva con gli attori. Confermata la stima reciproca si incominciò a pensare e ripensare. Alla fine si optò per Erodiade di Testori, trasformando il titolo in Erodiadi, in quanto Cristina ebbe l’idea di occuparsi di tutte e tre le Erodiadi scritte da Testori: il tema fu uno dei grandi tormenti dell’autore, lo studiò per trent’anni facendone ben tre versioni. Una più decadente, classica, che avrebbe dovuto interpretare Valentina Cortese (non la fece mai), quella più rivoluzionaria, anni Settanta, tutta rivolta al pubblico, scritta per Adriana Innocenti, e poi il capolavoro in lingua, Erodias. Cristina voleva dimostrare come la sperimentazione teatrale non avesse bisogno di forme astruse, spesso confuse come grande teatro. La vera sperimentazione diceva, sarebbe stata lavorare sulla parola, su come la diversa scrittura, sullo lo stesso personaggio, in questo caso tre linguaggi differenti, cambiasse il sentimento, il significato, lo stato d’animo del personaggio. E ancora, diceva, un regista sperimenta con l’attore, con la carne e il sangue, la stessa parola che esce dalla bocca dell’attrice è sperimentazione. È stata un’esperienza straordinaria. Mi ha cambiato tanto. Fino ad allora temevo di essere bloccata solo in certi personaggi. Cristina scardinò i miei timori, i miei pudori. Per impegni di entrambe dividemmo le prove durante un intero anno. Cosa meravigliosa perché così facendo si sedimenta il lavoro e il processo creativo ha un percorso più naturale, si ha la possibilità di sperimentare, di fissare e nello stesso tempo perdersi nel lungo tempo a disposizione, di maneggiare la parola, assorbirla, capirla, viverla come fosse tua, cresciuta dentro di te. Che bello! È difficile teorizzare per me il lavoro fatto, so solo che prendevo quel trenino da Milano a Vigevano con la consapevolezza che fare Teatro aveva un senso. Debuttammo al Festival di Benevento. Durante un’ultima prova a Milano prima di partire, fummo costrette a interrompere il lavoro, erano crollate le Torri gemelle. Cristina provava allattando l’ultima figlia. Io avevo perso da dieci giorni il mio amato papà. Insomma un vero turbinio! Arrivate a Benevento, si avvicinò e mi disse: «l’urlo che fai alla fine con Erodias, ecco pensa al tuo papà, alla tua disperazione». E così feci. Che dolore! Che ricordi! Era avvolgente,spietata, ma soprattutto sapeva come ottenere il salto mortale! Accoglieva le mie insicurezze e le trasformava in fiducia, azzardo, creatività, divertimento e una assoluta complicità tutta femminile. Qualche anno dopo fui coinvolta a Pistoia, lei nuova direttrice, in un progetto strano, drammaturgia contemporanea: Report. Lavoro realistico, quasi cinematografico, tre monologhi per tre attori. Così, fatti con assoluta verità davanti al pubblico. Io non stavo bene, mi ero appena separata. Ovviamente lavorò tanto su questo. Ricordo prove con tante lacrime. In seguito ci siamo riviste a teatro vedendo i rispettivi lavori. E poi ci perdemmo di vista come spesso capita in teatro, altri attori, altri registi. Tournée e via…
Si dice di Cristina che fosse una donna forte, certo. Ma a volte una donna deve farsi forte per farsi ascoltare. Era schietta, autentica, brusca, dolce, non aveva peli sulla lingua, ha sperato di cambiare il sistema? Forse.
Mi fermo qui. Avrei tanto altro da dire, sul sistema teatrale, sulla fatica tutta femminile… In questo momento, le mie parole mi sembrano inutili. La Cri non c’è più. Me la porterò nel cuore, sempre.

Al centro, Massimo Castri

 

Laura Marinoni

Ho conosciuto Cristina durante la preparazione di un film con Angela Finocchiaro, pochi anni fa; in teatro stranamente non era mai capitata l’occasione di lavorare insieme. Mi ricordo la mia sorpresa quando capii che era lei la casting con cui avrei dovuto sostenere il provino per un ruolo brillante. Ero stupita, di solito ti trovi a dover scambiare le battute con qualche assistente improvvisato, spesso completamente digiuno di recitazione, in situazioni improbabili e frustranti. Non avrei mai immaginato che quella sarebbe stata una delle esperienze più impegnative ed esaltanti della mia carriera d’attrice. Due ore di improvvisazione, di follia creativa, di divertimento. Per la prima volta nella mia vita mi ero scordata quella sensazione di inadeguatezza  che l’attore teatrale conosce bene quando deve proporsi a un test cinematografico. Mi fece fare di tutto, con quel suo fare energico che non ammetteva esitazioni : mi sembrava di essere tornata  di colpo ai tempi dell’Accademia, con la libertà di un’esercitazione a 360 gradi. Un bellissimo gioco, fuori da ogni schema. Andò bene, e su quel set lei era sempre presente, vitale, infaticabile. Subito dopo arrivò l’occasione di un recital di canzoni con il fantastico Alessandro Nidi, e finalmente Amore ai tempi del colera, operita musical per cantattrice e suonatori, sempre con la sua regia. Cristina aveva la capacità di immaginare dieci spettacoli in uno, ed era questa la sua più grande dote e insieme il motivo principale della difficoltà di relazionarsi a lei. Lavoro di drammaturgia, scelte musicali, ribaltamento dei ruoli, tutto in mezzo a continue telefonate, interruzioni, discussioni, risate e incazzature. Mi ha regalato un bellissimo sogno nel cassetto, facendomi impazzire a volte, ma provocando e liberando il mio istinto, il mio pensiero autonomo su quel progetto che sembrava non voler vedere la luce per mille impedimenti. Con lei non potevi mollare mai, era una leonessa indomabile. Per me l’incantevole asprezza di Fermina Daza sarà sempre legata alla sua voce e alla sua  ostinata voglia di vivere.

 

Bruna Rossi

Le parole sono volate via con lei. L’unica cosa a cui riesco a pensare è l’ultima volta in cui ho visto Cristina. Gennaio 2013. Prato. Ridotto del Teatro Metastasio. La bara di Massimo Castri e lo sguardo di Cristina. In silenzio, guardava la bara. Non una lacrima, non una parola. E poi il nostro abbraccio. Fortissimo, da togliere il fiato, a lungo in silenzio. Non ci vedevamo né sentivamo da una decina d’anni e l’ultima volta c’era stato un problema, diciamo così. In quell’abbraccio allora sentii il Presente, percepii il Passato e solo ora vedo che c’era anche il Futuro. Era il nostro saluto. E sono senza parole.

 

Marina Senesi

Stavo lavorando con Cristina a una nuova produzione, ci siamo messaggiate o viste su skype fino a un paio di giorni prima che la situazione precipitasse. Una mattina Cristina mi ha chiamata per dirmi: «c’è qualcosa di “jodorowskiano” in quello che andremo a preparare. E subito dopo poi mi ha mandato l’mms di una pagina di libro con una frase (forse di Marinetti?) segnata: “La poesia è azione”. Se può servire: a me, senza tante parole, racconta infinitamente di lei.

 

 

(Nella immagine di Copertina: foto backstage Love is Blonde – Marilyn in progress #1 (2018):  Silvia Giulia Mendola, Cristina Pezzoli, Vera Dragone; ph. Domenico Conte, per gentile concessione) 

 

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CAT: Teatro

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