Ravenna Festival, le visioni di Fanny & Alexander e dei Nanou
Il dolore e i suoi derivati. L’Urlo di Munch o la Colonna Rotta di Frida Kahlo fuori dalle cornici di quadri icone, sono concentrati di mondi di sofferenza privati diventati pubblici. Forza dell’arte che si è fatta veicolo prepotente di messaggi che, per sottrazione, raggiungono immediatamente il cuore delle persone, accendendo la compassione. Difficile stare indifferenti e passare oltre. Al contrario, questo tipo di segni semina incertezza e disorientamento, privato e pubblico. Non riguarda solo la pittura, ma anche altre forme espressive, dalla scultura alla fotografia. Vale così per le immagini riprese a Dachau o nei campi di sterminio del potere nazista come quelle scattate sulla spiaggia di Lesbo, migranti, pure bambini, deceduti nel tentativo di oltrepassare la frontiera. Trasmettono, in chi guarda a distanza dai fatti, un senso represso di panico e inquietudine, trasformandosi così in simulacri di pensiero oltre che di immagine stessa. Vanno cioè oltre la rappresentazione formale e figurativa del dolore sondando l’indicibile o il non detto. L’arte non spiega ma descrive un fatto o una situazione che ha generato o genera dolore. Lo rappresenta predisponendolo all’incontro con lo sguardo, lo mette in relazione con l’emozione. Resta la grande incognita: quale è il motivo che spinge un artista alla sua rappresentazione? Ispirato probabilmente anche dalla lettura del saggio di Susan Sontag “Il dolore degli altri” si è domandato così anche Luigi de Angelis che con i suoi Fanny &Alexander ha curato l’allestimento di “The Garden” presentato nei giorni scorsi, per conto di Ravenna Festival, alle Artificerie Albagià, spazio collocato fuori dal centro storico della città romagnola, accanto alla darsena.
Si chiede De Angelis perchè “nell’arte ricorre così spesso un soggetto come quello della sofferenza? Non siamo forse nient’altro che consumatori del dolore altrui o esiste in noi veramente uno spazio per la compassione? C’è una bellezza sublime nella sofferenza? Un’ambiguità? Quali sono le storie del nostro tempo che riverberano questa sofferenza? Deve l’arte assorbire questa istanza? Farsene portavoce? Non rischia di essere consolatoria? Che responsabilità abbiamo nel guardare la sofferenza altrui?».
Il regista -autore anche dei video dell’atto teatrale i cui personaggi indossano costumi ideati da Chiara Lagani– ha lanciato i quesiti e cercato contemporaneamente di dare una prima risposta in un set che monta nel buio più assoluto un polittico fatto di sette grandi pannelli in successione che rimandano fotografie o slow motion di natura. Ma soprattutto una galleria di personaggi che offre robusto contributo alla voce immagini, in pose riprese da quadri di pittori o azioni congelate in uno spazio tempo indeterminato. La forza di quello che appare come una installazione-concerto, un tableau di bella forza evocativa è dato dalla voce soul della soprano americana Claron McFadden che per tutto lo spettacolo surfa dallo spiritual al canto sacro.
Dalla tradizione dei campi di cotone, la cui musica è stata spesso vista come la quintessenza del dolore di un popolo e comunità al canto sacro: Bach, Dowland, ma soprattutto tanto Monteverdi. McFadden è superlativa. “The Garden” conquista ed emoziona mentre scorrono le immagini spuntate fuori all’improvviso e in tempo reale dal buio più profondo. Il canto riempie progressivamente tutto lo spazio. E’ fatto di partitura e improvvisazione, grazie anche all’eccellente lavoro al mixer e all’opera di looping dal vivo di Emanuele Wiltsch Barberio che mette in campo competenza e raffinata cultura musicale, capace di assecondare le evoluzioni vocali della soprano, anticipando e costruendo cornici di esaltanti architetture vocali (la regia del suono è invece di Damiano Meacci). Lo scorrere delle immagini assieme a quelle parallele live, ovviamente più forti, della musica è una sorta di via Crucis di citazioni pittoriche e flash di sofferenza, anche dei nostri giorni. Un singolare concerto teatrale costruito da suoni e visioni di impatto emotivo. Si evoca la Passione di Cristo, dal bosco del Getsemani alla figura di Pilato che si lava le mani. Dalla tragedia dell‘Ecce Homo a quelle del nostro tempo, il dolore come esperienza necessaria per andare oltre. Antonio Fogazzaro nel suo saggio diventato di culto, “Il dolore nell’Arte” (Baldini Castoldi 1901), ripreso dal suo discorso tenuto alla Società di Cultura di Torino l’11 aprile del 1900, si chiedeva: “E se la Intelligenza ordinatrice dei mondi dispose l’Arte a elevare l’ideale del piacere sopra ogni tetra febbre per modo che i desideri umani aspirino a un’armoniosa gioia dello spirito e della sua veste, comprendo pure che abbia disposto l’Arte anche a render voluttuosa non la sofferenza ma l’idea del soffrire; così che gli uomini vi si soffermino liberamente e richiamino allora in sè le ombre di ogni dolore del mondo, afferrino, almeno per un momento, il più intero disegno di questa vita terrena e almeno per un momento sentano quel desiderio indistinto d’infinito, quell’amore che punge il pellegrino di Dante :
“… se ode di lontano Che paia il giorno pianger che si muore..” Indefinibile palpito, pieno di rimpianti e di aneliti, ricordo di un tempo felice trascorso, presentimento di un tempo felice venturo, anello sensibile di due mondi inaccessibili al senso” .
Un altro lavoro dedicato al Paradiso dantesco, presentato a Ravenna Festival è stato quello del gruppo di danza Nanou, che assieme al teatro delle Albe e a Fanny &Alexander condivide la residenza nella stessa città di Ravenna, ha offerto sempre alle Artificerie Albagià la propria visione ispirata dalla terza Cantica della Commedia. Un’opera che ha conosciuto diverse fasi e ha visto il gruppo guidato da Marco Valerio Amico costruire un percorso interconnesso tra coreografia e arte contemporanea grazie alla collaborazione con uno degli artisti più interessanti del nostro tempo: Alfredo Pirri. Già mesi fa in occasione della presentazione del primo studio (https://www.glistatigenerali.com/teatro/danzando-sul-tappeto-doro-del-paradiso/) l’impressione fu di trovarsi davanti a un lavoro di qualità. Da allora l’allestimento ha come lievitato cambiando definitivamente pelle e aprendosi totalmente agli spettatori, non più confinati a uno sguardo di tipo ortogonale_ cioè platea-palcoscenico _ ma invitati ad essere parte integrante della stessa installazione-coreografia, dove le grandi distese argento e oro di Pirri hanno mutato posizione e modificato il feedback spettacolare del lavoro. “Paradiso” cioè è diventato contemporaneamente più incline a una spiritualità fatta di armonie di forme, ma pure più vicina all’uomo qualunque che può invadere il luogo mentre i danzatori costruiscono le figure agendo dentro lo stesso perimetro. Si cambia prospettiva ad ogni spostamento navigando tra sfere capovolte come fossero pianeti, ci si rispecchia sul pavimento fino ad avere le vertigine, quasi fosse il cielo. Con questo lavoro i Nanou hanno compiuto un passo ulteriore in avanti nella loro ricerca iniziata molti anni fa con il loro complesso “Motel” diviso in tre parti (Prima Stanza, Seconda Stanza e Anticamera) e che metteva in scena parallelamente la danza e la passione per il cinema, evocato come linguaggio espressivo nell’arco dell’intero lavoro. Tensione artigianale, ricerca e studio. Esattamente come in questo caso con un allestimento inizialmente quasi criptico e segreto che nel volgere di un anno si è trasformato.
Lo spazio si è espanso. Dilatato. La musica ha definito meglio i propri ambiti accompagnando e segnando la visione. Ora “Paradiso” è diventato luogo da attraversare. Dimensione altra: non più bidimensionale ma totale. C’è meno immagine e più danza: e i danzatori sono il collegamento tra la Terra e il Cielo.
Gli spettatori occupano e vanno su e giù sfiorando i corpi dei danzatori indifferenti alla loro presenza. Quasi fossero di un altro universo parallelo. Spettatori che guardano, camminano, scattano foto ai danzatori e alla scena. Sembra di stare dentro una factory di Andy Warhol dove l’atto di divenire arte da fatto privato è diventato pubblico.
Le musiche di “Paradiso” dei Nanou sono di Bruno Dorella. In scena: Carolina Amoretti, Marina Bertoni, Rhuena Bracci, Andrea Dionisi, Agnese Gabrielli, Marco Maretti, Emanuel Santos, Michele Scappa. Le coreografie sono di Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci, responsabile anche dei costumi.
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