Un Faust italiano a Parigi
Fresco vincitore del Premio Le Maschere del Teatro, Andrea Liberovici – compositore, autore, regista – non si accontenta. A giorni, il prossimo 17 settembre, debutta nientemeno che alla Philarmonie di Parigi il suo Faust’s Box, opera da camera (assolutamente ipercontemporanea) interpretata da Helga Davis e dall’Ars Nova Ensamble Instrumental diretto da Philippe Nahon. Si tratta di una scrittura complessa, che attraversa ambiti e tecniche diverse, chiamando in causa elettronica e immagini, narrazione e movimento.
Strutturato in tredici scene, per quello che è un anomalo mosaico, un viaggio a tappe nella coscienza di Faust, lo spettacolo ha come protagonista la cantante-attrice newyorkese Helga Davis, già in scena per l’ultima edizione di Einstein on the beach di Bob Wilson, che in Faust’s Box è interprete in propria voce, nel ruolo dell’ombra di Faust. Insomma, un vero e proprio evento, che si sugella con la direzione di Nahon, a lungo collaboratore di Peter Brook. Faust’s Box, a transdisciplinary journey (questo il titolo completo) sarà in scena anche in Italia, a Genova, a fine novembre: coprodotto dal Teatro Stabile di Genova, lo spettacolo si vedrà al Teatro Duse.
Operazione complessa, dunque, che però ha al suo centro l’eterna e cangiante figura di Faust. Naturale chiedere ad Andrea Liberovici chi sia Faust oggi…
«Quello di Faust è un tema enorme, incommensurabile. Per questo allestimento sono partito da una sintesi degli studi fatti da Lukács, che trovo ancora molto pertinenti. Lukács intendeva la figura di Mefistofele come quella di un “traghettatore”, da un mondo antico a un mondo moderno, da un mondo rurale con valori propri, al mondo delle macchine. Riassumo grossolanamente, in questa sede, il pensiero di Lukács, ma quella intuizione è stata per me sostanziale: mi ha fatto chiedere chi potrebbe essere Faust ora, dopo la transizione dal moderno, al post moderno, e ancora al post-post moderno. Ovvero dal mondo delle macchine al mondo del virtuale. In questa prospettiva, il nostro personaggio è diventato radicalmente diverso: e contiene – ma questa non è un’idea particolarmente originale – sia Faust che Mefistofele. Sono due aspetti che si mescolano l’uno nell’altro. Il nostro è un Faust che si è “democraticizzato”: non più un eroe, ma a tutti gli effetti un prodotto del capitalismo. Allora, dal momento che noi siamo fatti sostanzialmente di ciò che “mangiamo”, mi sono chiesto quale nutrimento possa avere l’immaginario di questo personaggio, quale fosse il nutrimento del suo immaginario. E per me, il nostro Faust si nutre del flusso costante di un mercato costantemente travestito: è, siamo, oggetto di compravendita di beni materiali o di noi stessi. Noi diventiamo, siamo diventati, consumatori globali, e siamo consapevoli di essere noi stessi la merce…».
Nel viaggio dal moderno al post moderno, dall’eroismo al capitalismo, il lavoro scenico si arricchisce di codici e linguaggi diversi. Il sottotitolo recita: “Un viaggio transdisciplinare”. Cosa significa?
«È molto importante, per me, distinguere tra i progetti “multimediali” e quelli “transdisciplinari”. Potrebbe sembrare un sofismo, e forse lo è, ma lo ritengo invece molto vincolante. È la differenza che passa tra il “vestito” e il “corpo”. Il vestito è il multimediale, qualcosa che serve per arredare noi stessi. Mentre il transdisciplinare è il corpo stesso. È qui la mia ricerca: far esplodere quella che Carmelo Bene chiamava la “scrittura scenica”, anche con tecnologie avanzate, utilizzando tutte le possibilità a mia disposizione per una narrazione – o una non-narrazione – di un progetto preciso. Il video, il suono, la musica, il gesto: nel mio modo di lavorare cerco la complessità, e questo significa studiare tutto contemporaneamente, lavorare su più tavoli nello stesso istante».
Il tutto chiuso in un “box”. C’è una scatola per questo Faust…
«Quella che definirei una lettura orizzontale del Faust, che non è più la figura titanica, alta, verticale, che conosciamo, fa sì che di Faust ce ne siano tanti. Siamo tutti noi, e siamo chiusi nelle tante scatole delle nostre vite. Questo grande placebo che è il “social” – il social è il placebo di se stesso: non c’è nulla di meno sociale dei social – è frutto dell’ideologia o religione dominante che è, ancora, il Capitalismo. Per questo torniamo ancora a Lukács. L’illusione di essere costantemente connessi, riceventi, postanti: è una moltiplicazione dei propri narcisismi attraverso lo specchio. E il nostro Faust è stato molto davanti lo specchio: uno specchio che può essere il computer, il social o quel che vogliamo. Faust dialoga solo con se stesso: è il massimo della solitudine. In questo senso, mi viene da concludere che il teatro è l’unica arma contro il Capitalismo: perché è l’unica arte che presuppone una comunità, un incontro reale e non, appunto, da “social”. Il teatro unisce realmente, ed è contro tutto ciò che impone la cultura dominante. Faust, invece, sta all’interno di questa cultura: essere soli, di fronte a qualcosa che non sappiamo cosa sia ma è uno “specchio” di sé, a vendere o a comprare: è la vittoria del Capitale».
Lo spettacolo è chiama in causa anche Bob Wilson: indirettamente, con la presenza straordinaria di Helga Davis, già protagonista del celebre Einstein on the beach; e direttamente con la voce off dello stesso Wilson…
«Abbiamo iniziato a lavorare a Faust’s Box nel 2008, tanto tempo fa. Ovviamente in mezzo ci sono state altre cose, ma da subito abbiamo iniziato a pensare alla struttura basandoci sulla parola “Mephisto”, ossia sulle singole lettere che compongono questo nome. Abbiamo associato una parola e costruito delle scene su ogni singola lettera. Ad esempio la M continene Man, Metal e altro. Il Faust’ Box, dunque, è strutturato sulle 13 lettere che compongono i nomi di Mephisto e Faust. Mi piaceva l’idea che ci fosse una “voce del destino”, una voce altra che facesse accadere le associazioni, che creasse il labirinto della possibile narrazione. Serviva una voce diversa da quella di Helga, che invece interpreta i due personaggi. Dunque abbiamo chiesto a Bob Wilson, il quale gentilmente ha accettato. Helga ha lavorato molto con lui, io amo molto il suo teatro: e la voce di Wilson, dunque, crea la nostra narrazione».
Può contare su un ottimo ensamble musicale, su un grande direttore. E il pubblico? Cosa si aspetta dal pubblico parigino della Philarmonie?
«So che è un pubblico esigente, colto. E sono naturalmente un po’ intimorito. Al tempo stesso, però, non posso non essere molto felice che il nostro Faust vada in scena a Parigi. Il pubblico della provincia francese ha già accolto lo spettacolo molto bene: l’anteprima a Poitiers, lo scorso febbraio, ha avuto una straordinaria standing ovation che ci ha lasciato spiazzati e commossi. Ma mi hanno tutti detto di non aspettarmi lo stesso a Parigi! Vedremo, qualsiasi cosa sarà, va bene. Tengo particolarmente, però anche al pubblico di Genova: andremo al Duse dal 30 novembre. Il Teatro Stabile di Genova ha mostrato interesse nel sostenere percorsi “non canonici” rispetto alla prosa, e mi sembra un segnale importante, cui speriamo di rispondere mostrandoci all’altezza degli spettatori genovesi».
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