
A.I.
L’AI non ha colpa. Tu sì
Per governare l’intelligenza artificiale serve più di una competenza tecnica. Serve responsabilità. E una coscienza.
Una patente per usare l’intelligenza artificiale. È la proposta comparsa ieri sul Corriere della Sera, firmata da un matematico e da una giurista. Non è un’idea banale. Non riguarda solo la pubblica amministrazione. Riguarda noi tutti. Perché la domanda vera non è “chi può usare l’AI?”, ma “chi è disposto a rispondere di ciò che genera?”.
Il disegno di legge approvato in Senato dice che l’AI potrà essere usata solo come supporto. Il potere resta umano. Ma anche la colpa. È il funzionario a firmare. È il funzionario a pagare se l’algoritmo sbaglia. Non l’azienda che lo ha costruito. Non il mercato che lo ha venduto. È una scelta. Ma è anche un rischio. Perché il timore blocca. E se la firma diventa una condanna preventiva, nessuno firmerà più nulla.
Ma c’è di più. Un algoritmo non si può ispezionare come un documento. È una macchina che apprende, generalizza, inventa. Non è logica, è statistica. Non risponde. Prevede. A volte sbaglia con eleganza. A volte indovina senza sapere perché. Chi lo usa dovrebbe saperlo. Ma chi lo costruisce, dovrebbe dirlo.
E allora sì, forse serve una patente. Ma non solo per i funzionari pubblici. Serve per tutti. Una patente non di abilità, ma di consapevolezza. Una formazione che non insegni solo i comandi, ma il limite. Che educhi al dubbio. Che protegga l’umano dalla delega cieca. Che ricordi che la trasparenza non sta nel codice, ma nella responsabilità.
Perché l’AI può anche generare testi perfetti. Ma non sa cosa sia la vergogna. Non ha colpa. Non conosce il peso della firma. Non si assume il fallimento. Non prega, nemmeno per sbaglio.
Chi governa il futuro dovrà farlo come si custodisce un figlio non voluto. Con attenzione. Con pazienza. Con una fragilità che sappia farsi legge.
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