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L’UE multa X: un passo avanti per il Digital Services Act, ma la strada è ancora lunga

Con la multa a X, il Digital Services Act entra davvero nella sua fase operativa, mettendo alla prova la capacità dell’Europa di regolamentare le grandi piattaforme digitali.

10 Dicembre 2025

La decisione della Commissione europea di imporre a X (ex Twitter) una multa da 120 milioni di euro per gravi violazioni del Digital Services Act (DSA) segna un momento storico nell’applicazione della nuova normativa europea sui service provider. È la prima sanzione di questa portata dall’entrata in vigore del DSA, una legge pensata per limitare la disinformazione, tutelare gli utenti e imporre obblighi di trasparenza e mitigazione dei rischi alle grandi piattaforme digitali.

L’indagine dell’esecutivo europeo ha messo in luce un quadro critico di mancata rimozione di contenuti illegali, scarsa cooperazione con i ricercatori – che per legge dovrebbero poter accedere ai dati della piattaforma – lacune nella moderazione e una gestione insufficiente dei rischi sistemici legati al design e funzionamento del social.

Al di là delle reazioni polarizzate, il significato di questa multa va letto nel contesto più ampio della sfida europea nel far rispettare gli obblighi di legge. Se la decisione ha un valore simbolico importante, il vero banco di prova sarà ora capire come la piattaforma sceglierà di adattarmi – e quanto l’UE saprà reggere la pressione politica, economica e legale che inevitabilmente seguirà.

L’enforcement richiederà tempo, fermezza e resilienza

Il punto più importante, spesso sottovalutato, è che questa multa rappresenta solo l’inizio di un percorso complesso per rendere effettiva una legge in vigore da tre anni, ma che finora ha prodotto pochi risultati tangibili. È prevedibile che X presenti ricorso, seguendo la strategia tipica di molte Big Tech per contestare, rallentare o negoziare l’applicazione delle norme.

Per questo è fondamentale che la Commissione resti ferma, che le organizzazioni indipendenti della società civile continuino a documentare le violazioni, e che si costruisca gradualmente una giurisprudenza solida – passo decisivo per evitare che il DSA rimanga un gigante normativo dai piedi d’argilla.

Il DSA vuole cambiare il modello di business delle piattaforme

Il DSA non nasce per punire le piattaforme, ma per modificarne i comportamento, modellati da un sistemi che favoriscono la circolazione di contenuti polarizzati, estremi e spesso inautentici. Negli ultimi anni, i tentativi volontari di autoregolamentazione – dai codici di condotta alle collaborazioni ad hoc con autorità o fact-checker – hanno mostrato tutti i loro limiti. Le piattaforme hanno agito solo quando ciò coincideva con i loro interessi, confermando che senza obblighi vincolanti il cambiamento resta superficiale.

La multa a X serve a mandare un segnale

La sanzione non serve a fare cassa, ma a lanciare un messaggio chiaro: tagli alla moderazione, opacità algoritmica e riduzione delle garanzie non sono compatibili con le regole europee. Ora il punto cruciale è capire se X introdurrà sistemi di moderazione adeguati, maggiore trasparenza sui contenuti a rischio e un’interazione costruttiva con ricercatori e istituzioni. In altre parole, se smetterà di muoversi ai margini della legge e inizierà davvero a rispettarla.

Perché servono sanzioni più forti contro la “semi-compliance”

La ONG belga EU DisinfoLab descrive l’attuale approccio delle piattaforme alle norme europee come “malicious semi-compliance”, ossia un’ottemperanza deliberatamente parziale delle regole. In pratica, le piattaforme simulano di rispettare la normativa, ma solo sulla carta, adottando misure minime, inefficaci o puramente cosmetiche.

Gli esempi includono strumenti di segnalazione dei contenuti illegali volutamente confusi o non funzionanti, report di trasparenza incompleti, sistemi di moderazione dichiarati ma non verificabili, o forme di cooperazione selettiva con i soggetti istituzionali. Questo tipo di condotta non solo tradisce lo spirito del DSA, ma lo svuota dall’interno.

Serve dunque una vigilanza costante sull’effettiva conformità, con sanzioni più severe in caso di recidiva, audit indipendenti regolari e misure specifiche contro chi tenta di aggirare le regole con comportamenti dilatori.

Il ruolo chiave della società civile

Un elemento spesso trascurate è che gran parte delle prove alla base dell’indagine proviene da ricercatori, fact-checker e membri di organizzazioni della società civile che monitorano le campagne coordinate di disinformazione. Sono loro ad aver fatto il “lavoro sporco”, spesso senza risorse e con ostacoli crescenti – dalla chiusura delle API alla mancanza di trasparenza sulle dinamiche virali, fino a veri e propri attacchi online.

Per questo, sarebbe utile che parte delle sanzioni imposte alle piattaforme venisse reinvestita nel sostegno stabile di queste realtà, senza il cui contributo nessuna istituzione sarebbe in grado di cogliere davvero la dimensione del problema.

Un passo avanti, ma la difesa dello spazio informativo europeo è appena iniziata

La multa a X segna un precedente importante, ma non risolve da sola la crisi dell’informazione digitale. Indica però che l’UE è pronta a far valere le proprie regole anche contro attori globali potenti e inclini allo scontro. La domanda chiave, allora, non sarà “quanto paga X”, ma se e come cambierà. Perché la battaglia per un ecosistema informativo sano è appena iniziata.

 

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