Esplorare le aree rurali nell’epoca delle culture digitali

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27 Ottobre 2015

Di Liminaria mi ha subito intrigato il nome: non solo qualcosa che è ai bordi o, meglio, sulla soglia, ma anche un valore, il valore minimo che uno stimolo deve avere per causare una reazione.

Stare sulla soglia, oggi, non è da poco, perché significa guardare il mondo da una prospettiva particolare, duplice, rivolta a quello che già c’è e, al contempo, a quello potrebbe esserci. Ed è proprio in questo condizionale, “ciò che potrebbe esserci”, che va reperito il valore minimo: tirare fuori dalle cose del mondo tutto ciò che potrebbe modificarle, che potrebbe dare vita a processi e ricadute innovativi, che in potenza esistono già, ma che necessitano di una miccia, di un detonatore in grado di determinarli.

Culture rurali e culture digitali

Liminaria è un detonatore perché ha scelto di muoversi su crinali apparentemente antitetici e non conciliabili: le culture rurali (con annessa memoria non solo storica, ma anche della terra e dei suoi mestieri, delle persone, dei vissuti, del contesto sensoriale) e le culture digitali, viste, tuttavia, come chiave per interpretare con gli occhi di oggi le culture rurali.

Il nostro Paese, in particolare il mezzogiorno, conserva un’anima rurale profonda che non si è ancora conciliata con la contemporaneità. Le centinaia di borghi che troviamo nelle aree interne delle nostre regioni e che insistono su territori ampi e ancora fortemente connotati da una bassa antropologizzazione, è come se vivessero in un tempo sospeso.

Un tempo in cui si perpetuano ancora trasmissioni generazionali antiche, orali, immateriali, di padre in figlio, e che tuttavia si stanno indebolendo, perché la gran parte delle nuove generazioni ritiene che lì, in quei luoghi un po’ sperduti, non ci sia possibilità di futuro. E la mancanza di una visione del futuro non è da attribuirsi solo alla consapevolezza, spesso sbagliata, di mancanza di opportunità lavorative, ma anche e soprattutto ad un’auto-percezione pauperistica, ad una visione di sé, e del luogo in cui si è nati, incardinata dentro un’ottica di povertà culturale, prima ancora che economica, perenne.

Questa mentalità, che è la causa del mancato ingresso delle culture rurali nella contemporaneità, concepisce quello rurale come un mondo che ha smesso di evolversi e che nel mondo di oggi trova più che un avversario il suo distruttore. L’idea sbagliata per cui l’artificiale che domina oggi il mondo sia l’opposto del naturale, rinsalda ancora di più questa prospettiva.

 

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Tuttavia, la domanda da porsi è: ma davvero quel mondo rurale è naturale?

È ovvio che la domanda è retorica, è ovvio che non lo è. Qualunque attività intrapresa dall’uomo che modifica in qualche modo, seppur lieve, ciò che la natura ha disposto, è artificiale. Anche la semplice coltivazione di una pianta è artificiale, se non lasciata libera di crescere come quando e dove la natura ha disposto. Anche la semplice irrigazione di un campo, che simula il fenomeno naturale della pioggia, è artificiale. Per non parlare del vino, ad esempio, che la natura non concepisce, ma l’uomo sì, lavorando e inducendo modificazioni ai processi naturali dell’uva (il vino naturale? Una fandonia! L’uva raccolta e lasciata a fermentare semmai diventa aceto, non certo vino).

Qualunque cultura è artificiale, perché prevede, è basata, pone come proprio presupposto la modificazione della natura.

Tuttavia il mondo rurale a un certo punto del XX secolo ha smesso di camminare di pari passo col resto del mondo, si è scisso da esso (pensate quanto fosse pienamente nel mondo ancora poche decine di anni prima, pensate ai romanzi di Balzac o di Dumas!). Il mondo rurale è diventato “il passato”, quello da abbandonare e da cui fuggire, quello opposto alla modernità “artificiale” delle culture urbane prima e metropolitane poi.

Oggi quella frattura che si è creata poco più di cento anni fa non è più sostenibile. E la via giusta da percorrere non è certo quello “del ritorno alla natura o al naturale”. La via da percorrere è quella opposta, è colmare il gap, ricucire la crasi, riportare dentro il presente e quindi verso il futuro il mondo rurale.

In questo il digitale diventa fondamentale e imprescindibile.

A differenza dell’artificiale analogico, quello digitale non interviene sulla struttura visibile e superficiale, ma sull’essenza. Il digitale non riempie la realtà di grandi macchinari o di oggetti voluminosi e strabilianti, il digitale recupera la realtà in forma immateriale e la ce la ripropone secondo modalità cognitive e sensoriali in grado di ricreare un nuovo rapporto fra gli uomini e il mondo.

Certo, anche la concezione del digitale soffre di pregiudizi profondi. Pensate alla sciocchezza secondo cui il web è virtuale, non reale, fittizio. Pensate alla sciocchezza per cui le relazioni che si instaurano sui social network sono finte, diverse da quelle vis a vis. Eppure, guardandone l’aspetto deteriore, la violenza che i social sono in grado di generare non ha nulla da invidiare alla violenza del mondo reale. E, dunque, se gli aspetti deteriori delle culture digitali sono così “reali”, perché non dovrebbero esserli anche quelli degli aspetti virtuosi, che a mio avviso, fra l’altro, sono ben più numerosi?

Ecco, Liminaria fa da detonatore a tutto ciò: rivela la potenza del connubio fra culture rurali e culture digitali, svela la forza evocatrice di cui queste ultime dispongono per rivitalizzare e trascinare nel contemporaneo tutte le storie, i saperi, i mestieri, i suoni, gli odori, i volti, i versi i corpi umani e animali del mondo rurale. Un mondo terribilmente ricco rispetto a quello che concepiamo oggi, eppure abbandonato lì, in un angolo.

Liminaria non lo recupera lo rigenera, dotandolo di quel valore minimo potenzialmente in grado di essere lo stimolo di una reazione.


 

 

Daniele Pitteri –  Esperto di comunicazione, industrie culturali e media events, docente LUISS Guido Carli

TAG: aree interne, bando che fare 3, culture rurali, daniele pitteri, Liminaria
CAT: tutela del territorio

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