Cosa si narra quando si narra? La narrazione americana standard

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31 Gennaio 2017

Amiamo storie in cui i nostri eroi trionfano sulle avversità e  in cui se  sono afflitti da disgrazie o sfortune  è solo per poi alla fine trionfare su di esse. Il modello sottostante è la passione e la successiva resurrezione: una molecolare e semplificata ” imitatio Christi” silente ma persistente nella nostra narrazione individuale e collettiva. Questa narrazione basata sul valore morale della sofferenza  non è presente in tutte le culture. Odisseo dopo vent’anni di peregrinazioni e sofferenze nel Mediterraneo torna a casa più vecchio non migliore o peggiore né tanto meno purificato dal dolore delle avversità: anzi trova l’energia per celebrare la sua spietata vendetta su chi gli aveva fatto del male: la sua apocalisse personale. Nell’Odissea l’happy end coincide con una strage!  Qualsiasi valore si voglia assegnare al Cristianesimo circa la “genealogia della morale” (come fa Nietzsche ) una cosa gli  va dato atto sotto il profilo narratologico, di facile storytelling direbbero i fighetti: fornisce un modello molto semplice, accettato  e condiviso da oltre duemila anni, di “narrazione” della vita individuale e collettiva. Col Cristianesimo si sa “come va a finire”.  Vita e morte prima,  resurrezione  e apocalisse dopo, fine della storia.

All’interno della macronarrazione cristiana basata sulla passione/resurrezione s’è insediata, oramai da cinquecento anni, la narrazione protestante della vita: quella che oggi domina incontrastata in molti plot romanzeschi e cinematografici: la narrazione americana. Nel 1961 Irving Stone pubblicò una storia romanzata di Michelangelo con il titolo “The agony and the ecstasy ” da cui nel 1965 venne tratto un film interpretato da Charlton Heston col titolo italiano di “Il tormento e l’estasi”. Il film narra tutte le traversie che l’individuo – più che l’artista Michelangelo – deve affrontare per realizzare la Cappella Sistina, ma lo fa nei termini “standard” che abbiamo visto in decine di film americani in cui c’è un individuo che lotta contro un ambiente ostile, e che, dopo allenamenti infiniti o agguati notturni degli indiani (il tormento) raggiunge l’estasi del successo o della pace del ranch ecc., ecc. Ogni popolo narra se stesso, consapevolmente o inconsapevolmente. Questa è la favola che gli americani amano ripetersi da sempre – dai tempi della struggle for live di Jack London ( e del suo romanzo più tipico “Martin Eden”) solo per citare un autore a me molto caro -, che accompagna la loro epopea nazionale e popolare: il trionfo dell’individuo (o meglio dell’individualismo protestante, cioè di chi fa affidamento sulle sole proprie forze e attiva tutto se stesso al fine di essere degno della “grazia” e della relativa salvezza) contro l’ ambiente o la natura ostili. Ovvero la conquista (l’estasi) del paradiso su questa terra attraverso la fede in se stessi e nelle proprie forze (il tormento); ed è chiaro a questo punto che non c’è tormento senza estasi e non c’è estasi senza tormento.

In effetti “Il tormento e l’estasi” potrebbe essere il sottotitolo di molti film americani, dove, come in una funzione proppiana è raccontata sempre la stessa storia: il trionfo dell’individuo provato da  infinite traversie, infiniti tormenti contro tutto e contro tutti. Oltre a tanti vecchi film western vorrei rammentarne alcuni relativamente più recenti di media produzione, quando non veri e propri “Bmovies”: “Ufficiale e gentiluomo“, “Karatè Kid“, “Flash Dance“ (o “Saranno famosi”) e “Rocky” e in fondo anche questo “La La Land”, film facile facile che sulla vecchia fabula americana (due giovani americani che inseguono il proprio sogno di successo) si gioca la partita con un’aggiunta di mélo. Cosa raccontano questi film infatti? Sempre la stessa storia americana, proprio quella di “Tormento ed estasi”: vuoi diventare qualcuno? (un ufficiale, un ballerino, un pugile, un’attrice, un jazzista… Michelangelo?!)…Vuoi avere successo? Ebbene: te ne devi rendere degno. Non devi fare come i cattolici, che si rivolgono a un santo in cielo ma spesso in  terra (la raccomandazione, il familismo, l’indulgenza). No:  devi sputare sangue, passare sotto le forche caudine di un sergente sadico, portare quarti di bue sulle spalle, dipingere infinite staccionate, ballare come un matto, sottoporti a estenuanti provini di recitazione, lottare contro monsignori ignoranti, ma il paradiso, l’estasi, li conquisterai solo se saprai soffrire e solo se avrai fiducia in te stesso. È insopportabile questa morale protestante, è vero? Voi preferite quella cattolica della “salvezza vicaria”, della intercessione dei santi? Della raccomandazione?

Questa visione americana  forse non è più nitida come una volta. La cristallizzazione della società americana è in atto da almeno 50 anni, e dinastie familistiche si lanciano e rilanciano anche nelle carriere pubbliche, tuttavia l’ “american dream”, il topos  narrativo (soprattutto ‘mentale’) in cui quello che noi chiamiamo parvenu si chiama orgogliosamente self-made man (cito da Max Weber, “L’etica protestante”) , è ancora il leitmotiv che si ama ascoltare/vedere in USA, forse più falso che vero, ma sentito come proprio, anzi il proprium della civilizzazione culturale americana, seppure  sempre più stanca.

Per altro verso il nostro concetto di “salvezza vicaria”, dell’intercessione dei santi e delle indulgenze messa in moto dalla mediazione religiosa (che è diventata parentale,  partitica, sindacale ecc.) dell’isomorfismo cielo/terra (santo protettore e raccomandazione) sta alla fine lentamente e inesorabilmente “incaprettando” la società italiana. E’ anche  per questa ragione che nella narrazione tipica italiana manca  il “romanzo di formazione” che in altre civiltà letterarie rispecchia la dura formazione del giovane attraverso i centri di eccellenza mentre da noi il destino sociale del giovane lo fa perlopiù  il denaro del “ vecchio genitor” che non si sa quanto soffrì…

 

TAG: American dream, Il tormento e l'estasi, La La Land, Ufficiale e gentiluomo
CAT: Cinema

2 Commenti

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  1. umbrito-tamburini 7 anni fa

    Troppo facile carsela col nome dropping a casaccio, quando un dulcamara )la minuscola e’ volontaria) si presenta con yes we can -alla Manzoni: inscatoliamo (merda) e mibottigliamo …- ed ora un dulcamara di altro tipo alza il pugno per inseguire gli incrollabili destini

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  2. luca-guiso 7 anni fa

    Mi sento un po’ preso in causa. Io sono il classico laureato (in giurisprudenza) che non riesce a trovare uno straccio di lavoro nel campo nel quale ha studiato. Preferirei essere un self-made man con delle competenze costruite nel tempo come tutti, ma dopo due anni dalla laurea penso proprio che mi aprirò una tabaccheria (ovviamente coi soldi dei miei…mi da un fastidio enorme far spendere loro altri soldi, ma direi che l’alternativa – fare il bamboccione vita natural durante – non è molto più allettante. Sono un rappresentante del cancro di familismo amorale che infetta l’Italia, oppure sono soltanto un tizio a caso che vuole costruirsi il suo angolino in questo mondo e vivere la sua vita? Dal tono di questo articolo, si direbbe che dovrei impiccarmi perché non riesco a costruirmi il mio percorso lavorativo con le mie mani.
    O forse sono solo troppo salty e mi devo dare una rilassata.

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