Nicola Gardini, uno sguardo alla Vita non vissuta

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29 Ottobre 2015

Esiste ancora uno spazio in cui Eros e Thanatos, a dispetto delle icone monodimensionali da cui oggi sono rappresentati, continuano a scontrarsi e corteggiarsi allo stesso tempo, riacquisendo la multidimensionalità che gli appartiene: e quello spazio è la letteratura.

“Ma la vita, senza il pensiero della morte, è un delirio…” scriveva Pascoli, nei suoi Canti di Castelvecchio; e così riporta in epigrafe Nicola Gardini nel suo La vita non vissuta (edito da Feltrinelli): romanzo moderno, diario frammentato, contemporaneo, di una lotta tra pulsione di vita e di morte – dovuta, necessaria al quotidiano.

Il conflitto, annoso e irrisolvibile, trova espressione negli appunti di Valerio, giovane professore di letteratura latina in un blasonato college newyorchese.
Valerio è sposato con Marina e ha una figlia piccola, Angelica. Il loro è un nucleo familiare apparentemente indissolubile. Ma Valerio non riesce a dimenticare, nonostante i molti anni ormai trascorsi, un vecchio amore giovanile – il primo, e forse fin qui anche l’unico – da cui è ancora segretamente tormentato.
Fu un amore non corrisposto. Si trattava di un ragazzo: Michele. Conosciuto ai tempi delle superiori e frequentato in lunghe giornate di ripetizioni di greco e latino. Proprio al termine di una di queste lunghe e tediose giornate, Valerio si dichiarò, ingenuo e goffo, e Michele, spiazzato, cercando di controllare le proprie reazioni, si limitò a una carezza. Poi sparì; saltò persino gli esami di maturità. Per Valerio non ci fu più modo di poterlo rivedere. Ma non smise mai di pensarci.
Passati gli anni, messa su una splendida famiglia, Valerio è costretto dal destino a inciampare in quel ricordo mai rimosso. Su un volo tra Stati Uniti e Italia, Valerio conosce Paolo, un giovane artista. I due cominciano a parlare: si piacciono, si scambiano i numeri e prendono a frequentarsi una volta in Italia. Di lì a poco, Valerio sarà costretto a lasciare sua moglie.
Paolo, pur essendo molto diverso, rappresenta tutto ciò che sarebbe potuto essere con Michele, il suo primo amore, se solo fosse stato ricambiato; Valerio lo sa: si tratta di una proiezione. Ma mai come ora si sente felice e innamorato.

Mai come ora Valerio si rende conto di cos’è davvero l’amore. Per troppo tempo il suo pensiero a riguardo è stato quello di uno «[…] sforzo di identificazione, seppure ci si identifichi con un fantasma che con l’altro reale non ha nulla a che vedere; uno che nemmeno sa di noi e dei nostri sentimenti.» È la descrizione del classico amore adolescenziale, dove si soffre e si cerca a tutti i costi l’approvazione dell’altro, dimenticandosi di sé – e dimenticandosi pure che l’identificazione è sbilanciata, univoca: spesso non si è ricambiati.
Dopo la parentesi con Marina, in cui Valerio si è ritrovato nella posizione, per lui inusuale, di oggetto del desiderio – contraccambiando più per gratitudine che non per vero sentimento –, è finalmente con Paolo che l’amore diventa un gioco compiuto di equilibri: «Se però l’immagine se la crea anche una seconda persona, pur diversa – necessariamente diversa –, e ha la pretesa che sia la stessa, allora nasce qualcosa di vero; invisibile, ma vero.»
La scoperta dell’Eros è compiuta. La storia con Paolo è appagante in ogni senso e sotto ogni aspetto. Per Valerio è come una meritata, stupenda novità.
In questo momento del racconto la sua è una voce tranquilla e leziosa, quasi superficiale: parla dell’attrazione come unica verità, della psicanalisi come scemenza, del destino come condizione delle cellule; i periodi sono spesso interrotti dai puntini di sospensione: un po’ per distrazione, un po’ per svogliatezza – spesso per incontenibile sentimentalismo; e il racconto stesso non manca di episodi frivoli ma che, come in ogni rapporto di coppia, si caricano al punto tale da diventare piccoli melodrammi: come le scene di gelosia di Paolo per una mancata vacanza insieme a Valerio, oppure gli eccessi di rabbia, le strampalate accuse di tradimento reciproche.

Ma per quanto concentrato sulle proprie sensazioni, sui piccoli avvenimenti e sulle evoluzioni del proprio carattere, sui propri cambiamenti emotivi, il racconto deve piegarsi a un punto di svolta decisivo e devastante, che irrompe dall’esterno.

Nel mezzo di una lezione universitaria, Valerio viene interrotto da una telefonata di Paolo, che non riesce a trattenere lo sconforto: ha appena scoperto di essere sieropositivo. Valerio ammutolisce. È sconvolto. Rimane per un breve periodo in una specie di limbo, tra speranza e rassegnazione; ma, compiute di lì a poco le analisi, l’esito è lo stesso: è sieropositivo anche lui.
Irrompe Thanatos – la minaccia, la paura, il solo pensiero della morte.
Valerio e Paolo sono sieropositivi. Il loro legame è forte, reale, ma lo è anche il virus che infetta il loro sangue.
È da questo punto in poi che la voce e il racconto cambiano sensibilmente.
Lo spettro della morte si insinua nel linguaggio, che diventa leggermente più analitico, descrittivo e oggettivo, e di conseguenza il lessico, che accoglie termini medici e scientifici e annesse considerazioni sull’HIV, su come la malattia e le sue cure si sono evolute nel tempo – un ingenuo tentativo di controllo; ma più di tutto è la mente di Valerio a passare da uno stato passivo – da chi vive la propria vita senza nemmeno accorgersene – a uno più attivo, in cui ci si percepisce all’interno di ogni attimo. «Quante cose desideravo fare e quante di queste non le avevo ancora fatte per nulla o le avevo fatte solo in parte o male, o avevo smesso completamente di farle?» si chiede Valerio. «Quanto, se non mi affretavo a recuperare, ero già morto?»

Qui n’a plus qu’un moment à vivre n’a plus rien à dissmuler – scrive il drammaturgo francese Philippe Quinault nell’Atys. Ed è così che prende a vivere, a ragionare e scrivere Valerio. Basta bugie – a se stesso e agli altri – e perdite di tempo.
Da qui in poi comincia un’esplorazione a più livelli – psicologica, fisica, geografica, letteraria – il cui unico scopo è capire cos’è la malattia e in chi o in cosa ci fa diventare una volta che questa ci contagia.

Alle distratte considerazioni sul destino si sostituiscono riflessioni dure e severe sulla propria condizione, dove con una fredda analisi si rimette in discussione ogni singola parte della propria esistenza, ogni singola nozione. Persino una parola come desiderio, che rappresenta «il richiamo di quel che non c’è più, è una nostalgia. La parola può anche significare semplicemente “bisogno”, o “mancanza”. Nei codici antichi le lacune sono indicate da un desiderantur…» E quindi, dal particolare al generale: «Dovevo impegnarmi a non desiderare, benché la mia condizione mi spingesse a desiderare continuamente, e molto di più. Dovevo fare. Bastava cominciare.»
In questa nuova, dolorosa e difficile esplorazione, di sé e del mondo circostante sotto una nuova luce, tetra e incerta, Valerio si affida al lume degli amati classici, delle scritture degli antichi, latini e greci, in cui ritrova una confortante saggezza. Anche la sua scrittura sembra nobilitarsi, convincendosi inoltre che «il malato deve, a posteriori, inventarsi un destino, proprio come Dante nella Vita Nuova.»

Convinto che solo attraverso il racconto della propria malattia la sua vita acquisterà un senso pieno – il che potrebbe valere anche come dichiarazione poetica implicita, oltre che come dichiarazione d’amore alla letteratura stessa –, La vita non vissuta entra così nella parte più suggestiva e riuscita, dove la corrispondenza tra vita e malattia diventa totalizzante.
Comincia il viaggio. La malinconia di una New York in autunno visitata insieme a Paolo, cercando di far finta di nulla, si sovrappone al tentativo di rimuovere i primi sintomi, le prime avvisaglie di decadimento fisico; poi la visita alla casa dello scrittore americano Washington Irving – autore del macabro racconto di Sleepy Hollow – in cui Valerio e Paolo conoscono uno strano e decrepito vecchietto, così malandato e per certi versi così invidioso della giovinezza dei due, da farlo sembrare una strana apparizione, quasi un’incarnazione del fantasma ella morte.
Valerio, poi, arriverà persino in Congo, spinto da quell’inconscia pulsione di morte – la voglia di arrendersi, di deporre le armi e concedersi a un meritato riposo – che lo vedrà calpestare, nel pieno della terapia contro il virus, in una terra devastata a sua volta dall’HIV, una terra marcia, ammuffita e contaminata.
Ma è anche il corpo a farsi paesaggio, e il virus viene descritto e mostrato come fosse un popolo invasore che tenta di espugnare una terra di conquista – e l’immaginazione di Valerio va al racconto della fortezza del popolo giudaico di Masada che combatte e cade contro i Romani.

La malattia è estenuante, ma l’amore fra Valerio e Paolo, tra alti e bassi, tende a fortificarsi ancor di più, proprio come un’apparato immunitario si comporterebbe per combattere un virus.
Gli anni passano, la malattia rimane nei suoi santuari all’interno del sangue, degli organi, ed è silente. Tutto sembra scorrere normalmente. Valerio, d’un tratto, si accorge che la sua è una condizione unica: «Il malato è uno che sa che qualcosa è accaduto; e che lui è la viva espressione di quell’accadimento, ora e per sempre.» Non è un elogio alla malattia, ma un’esaltazione della vita attraverso il pensiero della morte. «Io so, però, che certi giorni sono contento di essere malato» è il pensiero che conclude, dà finalmente un senso a ogni sofferenza e fa sì che Valerio possa guardare indietro, senza più timore, nelle sue angosce più oscure, al tempo irrimediabilmente andato – alla sua vita non vissuta.

(In copertina: dipinto a olio di Nicola Gardini)

TAG: feltrinelli, La vita non vissuta, letteratura, libri, narrativa, Nicola Gardini, Romanzi
CAT: Arte, Letteratura

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