Tsipras ha decretato la fine del ciclo tecnocratico e il ritorno della politica

27 Febbraio 2015

Il ciclo politico europeo che si apre in questo anno 2015 sarà uno dei più interessanti del Secondo dopoguerra e in primis il più interessante in assoluto dopo la firma dei trattati di Maastricht e della trasformazione della sovranità in Europa per via dell’unificazione tecnocratica che ne è seguita. Possiamo dire che dalla fondazione dell’Eurozona la sottrazione di sovranità e la delega senza legittimazione a poteri sì esterni alla volontà popolare ma nel contempo su di essa profondamente compulsivi è stato il tratto dominante del ciclo politico appena concluso. Chiamo questo periodo “ciclo politico tecnocratico” perché è stata la non legittimata tecnocrazia a dominare.

Il “caso greco” ha tutto disvelato. Infatti, l’accordo che si va delineando tra il governo greco di Alexis Tsipras e l’Eurogruppo rappresenta veramente la fine di un lungo ciclo della vita economica europea. Dall’unicorno al toro. Sino a oggi l’animale mitologico che rappresentava l’Europa era l’unicorno, simbolo pagano ed esoterico, misterico e allucinogeno, ossia il dominio del ciclo economico tecnocratico oligarchico su tutta l’Europa. La marcia europea era scandita dal rumor di battaglie e di ferraglia dell’oligopolio finanziario, da un lato, che avvolgeva l’Europa nella globalizzazione e dall’intersecarsi delle tecnocrazie europee, dall’altro. Queste ultime erano in primis la Banca centrale europea, in secundis la Commissione europea e poi in terzis il Consiglio europeo. Tecnocrazie perché nessuno di coloro che con esse esercitava il potere era stato eletto dal popolo, ma cooptato dai rappresentanti di quest’ultimo, ossia dai singoli governi europei, attraverso un accurato lavoro di bilanciamento tra famiglie partitiche e appartenenze nazionali, che via via formava l’ordito fittissimo di codeste istituzioni tecnocratiche. Perché fanno pensare all’unicorno?

Ma perché per orientarsi nel mondo, occorreva farlo attraverso una sola via,  quella dettata da regole macroeconomiche scritte una volta per tutte, che non potevano venir mutate da qualsivoglia cambiamento politico, di governo, di orientamento della pubblica opinione che poteva provocarsi là dove risiedeva e risiede la fonte di quella legittimazione dimenticata, ossia il pulsante cuore della vita politica nazionale. I tedeschi sono stati subito decisi a mettersi in capo anche in quest’occasione, quella del negoziato con Syriza, a mettersi in capo la maschera dell’unicorno. Valgono gli accordi presi col precedente governo greco, con la Troika precedentemente inviata in quelle lontane terre e nulla cambia, o meglio, nulla deve cambiare nell’atteggiamento che l’Eurozona deve assumere nei confronti di Atene, anche se ora l’Ellade ha un nuovo governo, con un programma diverso da quello dei conservatori che precedentemente governavano. Un ragionamento ferreo, non c’è che dire, che ci fa capire come l’ideologia dell’unicorno fosse ed era la parabola del capitalismo come religione su cui Walter Benjamin scrisse pagine solenni e indimenticabili e ora tragicamente attuali. Senonché quella antica maschera va disgregandosi. Il suo ciclo vitale è finito.

E sono le borse internazionali, e soprattutto quelle europee, a non tremare dinanzi alla sua fine. La prova di ciò eccola. Nonostante la fuga dei capitali dalle banche nazionali, l’Ue, la BCE e il Fondo Monetario Internazionale sono stati costretti a concedere alla Grecia quattro mesi di più di tempo per elaborare un piano di salvataggio e ancora lo stesso governo greco annuncia un piano di riforme che non sono le stesse da quelle invocate da Martin Jaeger, portavoce del Ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble. Il governo greco ha in mente tutt’altre riforme da quelle lacrime e sangue invocate dall’unicorno: basta col tagliare gli stipendi, basta col tagliare le pensioni, basta con le privatizzazioni selvagge che pongono a rischio centri strategici nevralgici per tutta l’Europa , come la vendita del porto del Pireo a fondi d’investimento cinesi. È lo stesso settimanale “Bild” a informarci sui contenuti della famosa lettera che lunedì prossimo il ministro Varoufakis, gran bravo economista non mainstream, dovrà inviare all’Eurozona. Non sono misure rivoluzionarie. Molte di queste misure sono echeggiate o già introdotte dal governo Renzi in Italia. L’unica differenza sta nella patrimoniale che Varoufakis vuole varare a danno degli armatori (che sono esentati dal pagare le tasse addirittura da un articolo della Costituzione) e gli oligarchi.

Inoltre si dovrebbe operare per recuperare le tasse arretrate e soprattutto combattere il contrabbando di benzina e sigarette che costituisce la vera spina dorsale dell’economia informale e nascosta della Grecia. In tutto si dovrebbero recuperare dai 5 ai 6 miliardi di euro il che  dovrebbe consentire di iniziare a elaborare una strategia che punti alla mossa del cavallo e a unire l’aumento delle entrate statali con l’aumento della domanda, aumentando gli stipendi di dipendenti pubblici e migliorando le condizioni sanitarie dei più poveri. È importante la sostanza politica dell’azione che è un cambiamento inaudito nei rapporti tra ciclo economico e ciclo politico in Europa. Fino alla rivolta greca, perché di questo si è trattato: di una vera e propria rivolta, fino alla rivolta greca il ciclo politico non esisteva, era stato annichilito da quello economico, tutto abbarbicato, sorretto e  sostenuto dalla protervia dell’oligarchia tecnocratica tedesca e teutonico-nordica in specie. Ora questa incastellatura terribile e crudele si sta frantumando e sta crollando da tutte le parti. Ieri tutti i mezzi di comunicazione di massa europei hanno trasmesso dati allarmanti sulla situazione economica tedesca. È una notizia gravissima di cui dobbiamo rattristarci.

Ma che anch’essa pone le basi, anche in Germania, per un cambiamento di ciclo. I socialdemocratici tedeschi hanno già fatto sentire la loro voce. E del resto un nuovo ciclo di elezioni politiche sta per scatenarsi in Europa, dalla Spagna al Portogallo, alla Polonia. I governi incantati dalla religione del capitale tecnocratico sono in una morsa: continuare a seguire l’unicorno e cadere trafitti dalle loro destre da un lato, oppure correre il rischio di essere travolti da rivolte tipo quelle di Tsipras, come già si preannuncia in Spagna e per certi versi in Polonia, dall’altro?

Mario Draghi, osservatore attentissimo e politico prima che banchiere, ha già avvertito l’avvento di questo nuovo ciclo e si muove di conseguenza, ed è per questo che la BCE si è subito dichiarata disposta a sorreggere le banche greche e, di fatto, ad appoggiare la mediazione da parte di Syriza. Per questo penso che un nuovo ciclo stia investendo l’Europa e che l’animale simbolico non sia più l’unicorno ma invece il toro con le sue due belle corna che rappresentano finalmente l’avvento di una ciclica duplicità. Da un lato l’economia, dall’altro la politica, l’una interagente con l’altra e la politica non più dall’economia annichilita, come è stato negli ultimi vent’anni. Per chiunque poi si intenda di iconografia antropologica e cristiana sa che il toro menzionato da san Giovanni nell’Apocalisse diviene simbolo dell’evangelista Luca ed è accostato a Cristo come sorgente di vita. Quella sorgente di vita di cui l’Europa ha disperatamente bisogno e che solo un risorgimento umanistico della politica, che torni a guidare l’economia, può inverare.

Qualcosa si è disvelato, dunque, più che rotto, con la questione greca e con la crisi ucraina in Europa e nel mondo.  È vero che entrambe interessano il plesso più delicato della storia europea: quella cerniera terribile che va dai Balcani alla Crimea e che è sempre stata il fronte frastagliato e impervio e disgregato contro cui si sono infrante le ondate ottomane, zariste e poi austro-ungariche e poi bolsceviche e poi naziste senza mai trovare un momento di stabilità. Un plesso terribile, ora che si incardina altresì con il millenario scisma islamico che riviene alla luce per le lotte intra-arabe più che intra-islamiche “da medie potenze regionali”. Ma ciò che fa la differenza è che sino all’inizio del nuovo millennio tutto pareva ancora poter essere ancorato sulla storia e sulla cultura che l’umanità incivilita e in primis le sue cuspidi  statuali, avevano  incorporato nelle loro rispettive nazionali diplomazie .

Questo patrimonio poteva condensarsi euristicamente in quella declinazione imperiale del diritto internazionale che inizia a costituirsi come pratica del governo mondiale, sostanzialmente dopo il Congresso di Vienna del 1815, e che continua a implementarsi e a diffondersi in tutto il pianeta via via che sorgono nuove statualità e nuovi dominii imperiali, sino alla fine del Novecento. Alessandro I di Russia, Francesco I d’Austria e Metternich, Talleyrand, il Duca di Wellington, ridisegnarono la carta dell’Europa, dopo l’uccisione politico-militare del Mostro che aveva infiammato le menti e i cuori dei rivoluzionari e oscurata la vita della reazione e del dominio insieme: l’Empereur temutissimo. Napoleone fu eliminato e portato a morire nell’Oceano, ma la Francia fu salvata e ricostruita.

La politica prendeva il posto della rivoluzione e la diplomazia quello dell’occupazione manu militari degli stati da parte di armate rivoluzionarie guidate da un capo impareggiabile che aveva fatto stupire lo stesso Hegel.  Come è noto ,quel secolo che ne seguì e che anche Polany magnificò, si dileguò con la Prima Guerra Mondiale, quando la forza stessa della storia – soprattutto per l’ avvento della potenza germanica –sconvolse la diplomazia e illuse non solo i pacifisti, ma anche coloro che pensavano di placare il Minotauro germanico con le carni dei piccoli stati. Il Minotauro, invece, una volta fallito il disegno che anche Marx ed Engels avevano vagheggiato, di una possibile rivoluzione democratica in Germania, unificando gli stati del sud all’impero austroungarico, così da  tagliare le unghie alla Prussia e così da non farla divenire troppo potente, quel disegno era fallito.

Lo spirito demoniaco della volontà di potenza alla ricerca dello spazio vitale che già Tacito nella sua “Germania” aveva ben distinto, non poteva che travalicare ogni immaginazione angosciosa, come poi fu comprovato con il delirio del paganesimo hitleriano. Il Secondo dopoguerra può essere interpretato come un colossale tentativo sia da parte degli USA sia da parte dell’URSS di ricostruire un sistema “tipo Congresso di Vienna”. Teheran e Yalta, in definitiva, furono delle metafore di quel fenomeno straordinario dell’inizio dell’Ottocento. Perché fu irrepetibile rimane un problema storiografico per la coscienza umanistica europea. Certo non esistevano, dei diplomatici di allora, ossia di quell’età dorata da cui il Congresso di Vienna scaturì, che delle pallide copie ma che oggi in ogni caso giganteggiano, se guardiamo a coloro che ne hanno rivestito i panni in questi tempi così terribili e inquieti. Lo sbigottimento dinanzi alla decadenza non può non assalirci con un senso di fallimento profondo se ci poniamo sul solco della civilizzazione occidentale. Comprendiamo che siamo al tramonto con un chiarore di morte indicibile.

La “guerra fredda”, tutti gli studiosi concordano, fu un equilibrio instabile ma in grado di scaricare sulle periferie i conflitti tra le due grandi potenze che erano ancora protese a spartirsi il mondo fuori dall’ sse e dalla faglia, insieme, europea e nord americana, a riprova di quanto decisiva, appunto, rimase e rimane, per le sorti dell’umanità intera, la questione europea e con essa, naturalmente la questione mediterranea e quindi, ancora la  questione sia balcanica sia africana.

Ciò che però caratterizzò, in una forma preoccupante, la differenza tra il periodo post-congresso di Vienna e quello post-seconda guerra mondiale, fu l’incapacità che disvelarono sia l’URSS sia gli USA e i loro alleati europei, in primis francesi e inglesi, di dare vita a quella serie di riaggiustamenti dell’equilibrio via via infranto che furono i capolavori diplomatici della seconda metà dell’Ottocento: penso al Congresso di Parigi del 1856 che si svolse dopo la guerra di Crimea e che diede un contributo enorme alla creazione di anni di pace in un contesto difficilissimo e pericolosissimo, penso alla conferenza di Londra del 1871 dopo la guerra franco prussiana che, se fallì nell’impedire un eccessivo rafforzamento della Prussia per via dell’avvenuta unificazione germanica, fu tuttavia l’ ultimo tentativo di regolare l’impetuosa e pericolosa crescita della Germania per la pace di tutto il modo e infine penso al Congresso di Berlino dopo la guerra russo-turca del 1878, che segnò addirittura un momento di civilizzazione diplomatica tedesca, pur dopo che le potenze belluine di quell’impero avevano eliminato e allontanato da sé la saggezza di Bismarck, ultimo esponente di una via pacifica al potere mondiale da parte della Germania. Tutti questi tentativi di regolare l’ordine internazionale, mentre il colonialismo galoppava, il capitalismo trionfava, il mondo correva verso quell’evento tragico che fu la rivoluzione bolscevica, sono capolavori diplomatici che non siamo più in grado di creare oggi.

Oggi ci snerviamo in continui accordi sul libero commercio o in riunioni “globali” o più ristrette (sic!) delle grandi potenze e delle piccole potenze per regolare o tentare di regolare i mercati, mentre le crisi economiche risultano fuori controllo. Il perché è presto detto: perché la politica a livello mondiale ha perso il suo potere specifico che è la diplomazia internazionale. Dopo la caduta dell’URSS non si è saputo ricostruire un nesso diplomatico, un dialogo diplomatico, neppure tra gli USA medesimi e la potenza sconfitta. Non solo questa incapacità ha tracimato in tutti gli stati europei e ha investito le stesse istituzioni europee, che sono state forgiate appunto dalla volontà macro-economica della finanza globale, piuttosto che da quella della diplomazia globale. È chiaro in tal modo che il ciclo politico dominate non è più quello della regola politica come continuazione della minaccia dell’uso della forza e come continuazione, insieme, della capacità strategica di non concepire mai la distruzione dell’avversario, ma la sua rigenerazione in senso favorevole all’equilibrio internazionale e all’integrazione statuale che non annichilisce l’avversario medesimo.

Se così non si fa, come invece si è fatto, si favorisce la distruzione della capacità di equilibrio complessiva del sistema nazionale e quindi di quello internazionale per un semplice principio geopolitico, come è apparso evidente in Iraq e in Libia recentemente, quando il groviglio tribale ha avuto la prevalenza sulle strutture statuali precarie che sorreggevano territori di insediamenti umani stabili ma dalle regole del potere totalmente differenti da quelle delle super potenze e in generale delle regole europee. La non comprensione di questa differenza ha scatenato l’inferno. E questo inferno ora si combina con il ciclo economico di potenza europea a dominazione teutonico-deflativa oggi in atto in piena luce sul caso greco. Esso è una cartina di tornasole del fenomeno che sto descrivendo: siamo dinanzi al collasso di una civilizzazione diplomatica che ha  impiegato circa sessanta anni a dispiegarsi appieno, oscurata dalla guerra fredda e poi  venuta alla luce per incapacità dell’Occidente di rispondere alle sfide di potenza che sono emerse dopo il crollo dell’URSS.

La farfalla greca e il coltello scismatico islamico sono, insieme, quel sommovimento tellurico che può provocare il crollo di una immensa costruzione secolare da tempo pericolante.

TAG: alexis tsipras, bce, Eurogruppo, grecia, tecnocrazia, Unione europea, yanis varoufakis
CAT: Geopolitica, Politiche comunitarie

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