Corbyn e il Labour post-Brexit. Sguardi su un conflitto illuminante

17 Agosto 2016

Chi decide dentro un partito ? Quanto conta l’opinione della base ? I gruppi dirigenti possono rivendicare uno sguardo più lucido dei semplici iscritti, e far pesare di più la propria opinione ?

Fra i tanti sconvolgimenti che il referendum sulla Brexit ha generato nella politica inglese – l’uscita di scena di David Cameron, prevedibile in caso di sconfitta del “Remain”, quella a sorpresa di Nigel Farage, che ha lasciato l’Ukip nonostante potesse fregiarsi del ruolo di vincitore del referendum – c’è l’ aspro conflitto che si è aperto dentro il Partito Laburista, con il leader Jeremy Corbyn sfiduciato dalla stragrande maggioranza dei deputati (Member of Parliament, MP’s) del suo partito.

La cronologia dell’accaduto, sommariamente, è questa: subito dopo il referendum Corbyn è stato accusato di non aver sostenuto con la dovuta energia la campagna del “Remain” e, più in generale, di non essere in grado di portare il Labour alla vittoria nelle prossime elezioni generali, previste nel 2020. Una linea politica troppo “di sinistra” – è l’accusa – sta portando il partito a ghettizzarsi e a perdere il sostegno di quella parte moderata dell’elettorato essenziale per poter contendere la vittoria ai Conservatori.

La sfiducia dei deputati ha portato ad una nuova competizione per la leadership, in cui a Corbyn si contrapporrà Owen Smith, rimasto unico candidato in opposizione al leader attuale; l’altra possibile candidata, Angela Eagle, si è ritirata garantendo il suo appoggio a Smith.

La questione fondamentale, ovviamente, riguarda la contrapposizione fra due diverse linee politiche. Io che scrivo tifo Corbyn, ma si tratta soltanto di un’opinione, e ci sono autorevoli voci che si esprimono a favore sia dell’uno che dell’altro candidato.

Come accade in queste occasioni, ciascuna componente enfatizza gli elementi a proprio favore, a volte esagerando un po’, fino ad arrivare ad esporre timori effettivamente un po’ grotteschi. Non mancano, per fortuna, confronti argomentati fra i sostenitori dell’uno e dell’altro candidato.

Un equilibrato articolo uscito proprio in questi giorni analizza i sondaggi disponibili, e confronta la serie storica di risultati alle elezioni di “mid-term” per il partito all’opposizione. In base ai dati rilevati, nessuno dei contendenti può onestamente dirsi vincitore, e nessuno può essere considerato obiettivamente sconfitto.

La questione su cui mi sembra interessante soffermarsi – anche se può apparire secondaria – è tuttavia la modalità secondo cui sta avvenendo questo scontro interno al Labour.

Corbyn è leader dal settembre del 2015: un tempo forse troppo breve per esprimere un giudizio definitivo sul suo operato. Ma, soprattutto, è stato eletto secondo la logica “One Man One Vote”, introdotta al tempo della elezione del suo predecessore Ed Milliband: ogni membro del Labour ha avuto diritto ad esprimersi, e lo hanno avuto anche i cosiddetti “supporter registrati”, dopo aver versato tre sterline.

La vittoria di Corbyn sui suoi tre avversari per la leadership nel 2015 è stata schiacciante, e fortemente trascinata dal massiccio afflusso di voti “dalla base”, anche grazie all’impegno dell’organizzazione Momentum, sulla cui natura e sul cui lavoro nella campagna a sostegno del leader varrà la pena di ritornare.

Nel momento in cui i deputati lo hanno sfiduciato, anche all’interno del partito è comparso quel conflitto sotterraneo “fra oligarchie e popolo” che sembra caratterizzare tutte le nostre democrazie e che, nel contesto britannico, si era manifestato da poche settimane nel referendum: un gruppo ristretto di personalità autorevoli ha sentito il dovere di intervenire per “salvare il Labour”, e ha ritenuto di avere il diritto di farlo sconfessando quanto deciso da una base ben più ampia di persone solo pochi mesi prima.

I contrasti che hanno seguito la sfiducia a Corbyn, riguardanti le modalità secondo cui si sarebbe dovuta svolgere la nuova sfida per la leadership, hanno reso ancora più evidente questo schema.

Dapprima si è contestato il diritto di Corbyn a ricandidarsi, sostenendo che non aveva il sostegno di un numero sufficiente di parlamentari, come previsto dalle regole; il Comitato Esecutivo Nazionale del partito (NEC), chiamato a dirimere la questione, ha sancito che il leader uscente può candidarsi automaticamente, senza bisogno di invocare il sostegno dei parlamentari.

Ma lo stesso NEC ha imposto alla partecipazione al voto un vincolo molto stringente – potranno votare gli iscritti al Labour prima del 12 gennaio 2016 – e ha concesso una finestra di tempo molto piccola, di soli due giorni, a chi avesse voluto diventare “supporter registrato”, alzando però la cifra da pagare ad addirittura venticinque sterline. Questa scelta ha escluso dalla possibilità di votare un numero considerevole di iscritti, che si sono avvicinati al partito proprio grazie alla proposta politica di Corbyn.

In tutto questo è difficile non vedere la riproposizione di contrapposizioni che in Italia conosciamo bene, e si sono manifestate in particolare dentro il Partito Democratico, riguardo all’elezione dei dirigenti e dei candidati alle cariche pubbliche.

Bisogna ammettere che non è per niente facile trovare un punto di equilibrio fra le diverse esigenze: da un lato è necessario che un partito si apra quanto più possibile all’esterno, favorendo e garantendo la partecipazione anche occasionale di chi, anche non riconoscendosi in toto nell’organizzazione, si senta coinvolto a sostegno di questo o quel candidato.

Dall’altro lato è necessario impedire che il ricorso al “sostegno esterno”, invece di essere una effettiva apertura a possibili compagni di strada, diventi lo strumento attraverso cui si convogliano in maniera organizzata e qualche volta truffaldina consensi su questo o quel candidato, facendo ricorso a persone che si muovono esclusivamente per interesse, e non per adesione ideale.

D’altronde, è doveroso che chi a un partito è iscritto, e magari per quel partito si impegna con costanza – sono rimasti in pochi, ma ci sono – abbia una voce in capitolo più forte, al momento di prendere delle decisioni, rispetto a chi si è appena avvicinato.

Si potrebbero fare molti esempi, in Italia, di situazioni in cui questo equilibrio non è stato trovato per nulla, e si sono prodotti danni sostanziosi: valga come esempio, per tutti, la gestione delle primarie liguri per l’indicazione del candidato alla presidenza della regione, nel 2015.

Di certo, in questo dibattito, la scelta fatta dai dirigenti del Labour sembra fortemente discutibile, e piuttosto orientata a difendere logiche che rischiano di essere completamente anacronistiche: impedire di votare per l’elezione del leader – che sarà proclamato a fine settembre – a chi a quel punto sarà iscritto al Labour da nove, otto, sette mesi, non si giustifica se non con la volontà di impedire un pronunciamento che, si teme, potrebbe essere decisivo far pendere la bilancia a favore di Corbyn. Si dice che si tratti di oltre centomila iscritti: quale organizzazione può permettersi di mettere da parte con leggerezza un numero così grande di aderenti ?

Di certo, come ricorda Helen Lewis, è opportuno che anche i suoi avversari si interroghino sulle ragioni del feeling così vasto fra Corbyn e una parte non trascurabile dell’elettorato laburista; per citare testualmente la commentatrice di NewStatesman: “As Labour leader, Corbyn makes people feel good about themselves and optimistic about the future. Anyone who wants to challenge him needs to understand that too, just as much as the electoral map or public attitudes to immigration or welfare”.

Insomma, anche sul Partito Laburista britannico si stanno abbattendo le contraddizioni che percorrono le nostre democrazie. I partiti, se vorranno ritornare ad avere un ruolo significativo all’interno dei nostri sistemi politici, dovranno provare a dare risposte alle questioni accennate. E dovranno essere risposte significative, di ampio respiro, che abbiano come obiettivo la trasparenza e l’effettiva partecipazione dei cittadini alla loro vita interna, non la sconfitta del rivale del momento. A oggi, il percorso da fare sembra ancora terribilmente lungo.

 

TAG: Brexit, Jeremy Corbyn, Labour, partecipazione, partiti, politica
CAT: Istituzioni UE, Partiti e politici

2 Commenti

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  1. marco-cernich 8 anni fa

    Volevo scrivere due righe a margine di questa opinione che mi sembra davvero molto ragionata e capace di ripercorrere in maniera scorrevole quanto accaduto nel Regno Unito in quest’ultimo anno senza tralasciare le direttrici politiche di fondo che soggiaciono a questo rivolgimento. Ho seguito, in buona e vasta compagnia, con grande interesse l’ascesa di Jeremy Corbyn e la ventata di rinnovamento si è percepita bene anche qui in Italia, benché da noi a sinistra troppo spesso siamo costretti a guardare all’estero per non guardare in casa nostra. E però, nonostante ogni paese abbia le proprie caratteristiche e i propri scenari politici, pure io non ho potuto fare a meno di rintracciare questa contrapposizione tra partito “aperto” – o “liquido” per essere più di moda – e partito “chiuso” – o “corpo intermedio”, per essere altrettanto alla moda. Non saprei dire ora da quando ha preso piede questa discussione, anche se va detto che nell’arco di tutta l’esperienza repubblicana del nostro paese si è sempre ravvisata l’esigenza di una legge che disciplinasse la struttura dei partiti. Quello che però ci è dato sapere tralasciando il passato più remoto, è che oggi i partiti sono fortemente delegittimati e deboli; poco o nullo il potere, sempre più ristretta la platea degli iscritti. Questo è dato condiviso ormai ed è evidente agli occhi di tutti, e forse anche per questo l’esigenza di “riformare” i partiti si può prestare a campagne politiche azzardate come l’abolizione tout court dei finanziamenti pubblici. E tuttavia, l’esigenza di riforma dei partiti richiederebbe secondo me una più attenta riflessione: in una democrazia rappresentativa, i partiti sono lo strumento attraverso cui il popolo esercita la propria sovranità popolare eleggendo i suoi rappresentanti all’interno delle istituzioni: altri strumenti non ce ne sono, o se ve ne sono, sono inevitabilmente un gradino sotto per dire, rispetto al processo democratico delle elezioni. Vogliamo o no, i partiti quindi sono necessari, e non ne possiamo fare a meno, salvo cambiare la forma di stato. Anche questo mi pare un dato abbastanza evidente alle persone più accorte, e proprio qui mi pare si prenda la piega sbagliata: non potendo cancellare i partiti, rendiamoli se non inesistenti quasi inesistenti. Ed è paradossale che questo messaggio arrivi proprio dalla politica, da parlamento e governo, che in verità dovrebbero essere frutto di questi partiti. Ma, a onor del vero, chi frequenta la vita di partito vede un distacco sempre maggiore tra il partito della cosiddetta “base” e il partito degli “organi dirigenti”. Il primo molto debole, il secondo invece molto forte. Nel corso degli anni, a quanto pare, la politica si è fatta cosa per pochi, per cui gli “eletti” si trovano a contare sempre di più mentre il semplice iscritto al partito sempre meno. E’ difficile su due piedi rintracciare le cause, e molto probabilmente a sinistra anche una profonda mancanza di chiarezza sul dove andare ha contribuito a questo svuotamento del contenitore partito, ma di fatto i partiti si sono progressivamente trovati ad essere dei dopolavoro impotenti di fronte alla velocità degli amministratori eletti, tagliati fuori dalle segrete stanze dei palazzi. E di conseguenza, con nulla o poco da dire nelle piazze. Questo è secondo me il punto fondante. I partiti non funzionano perché vi è una dissociazione macroscopica tra i vertici e la base che stravolge il concetto di rappresentanza e li rende scatole vuote, detestabili dall’esterno e inavvicinabili. E a nulla serve lo strumento delle primarie se questo poi si trasforma in un plebiscito e i meccanismi interni rimangono gli stessi. Perché io condivido la politica di Corbyn ma non quella di Renzi, però il modo è stato lo stesso: entrare sfruttando una forte massa di “esterni”, e questo può essere un bene ma anche un male. Per cercare di concludere senza allungare troppo il brodo, non credo che il “partito liquido” di cui si parla, che di fatto si traduce in un partito del tutto snaturato e contendibile, anche se il termine che troverei quasi più adatto è quello dello stupro, uno stupro naturalmente figurato e politico, non credo che questo sia il partito migliore per il domani. Né credo che il partito possa rimanere chiuso, materia di iscritti, posto che gli iscritti ai partiti sono di gran lunga enormemente di meno rispetto a quanti erano vent’anni fa, perché un partito non può permettersi il lusso di atteggiarsi a semplice circolo culturale o associazione da dopolavoro. Solitamente chi non sa usare uno strumento scarica la colpa su di esso dicendo che è difettoso. A me sembra che troppo spesso si ricorra a questo espediente, e la contrapposizione tra le due visioni sopracitate credo rischi di portare acqua al mulino di un dibattito impostato in maniera errata. Forse, ma non ne sono sicuro, si potrebbe rimettere in sesto il sistema dei partiti dando finalmente attuazione all’art. 49 della nostra Costituzione, garantendo appunto un concorso democratico per determinare la politica nazionale; democratico per davvero, non solo sulla carta. Per questo non sarà mai troppo tardi se nel nostro paese torneremo a parlare di una legge sui partiti.

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    1. lavecchiatalpa 8 anni fa

      Grazie per l’attenzione. Il tema è complesso, e sinceramente non so proporre soluzioni; mi sembra singolare – nel momento in cui si parla così tanto di riforme costituzionali – che ci sia così poca attenzione all’articolo 49 della Costituzione e alla discussione in corso sulla legge “sui partiti” in discussione alla Camera

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