Ma vale la pena di leggere Houellebecq?

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27 Febbraio 2015

Ci sono eventi così sconvolgenti che, oltre a una reazione emotiva spontanea (Je suis Charlie, senza se e senza ma), obbligano a nuove riflessioni, anche ad affrontare autori che, da quello che si legge sulla stampa, potrebbero essere urticanti per me e comunque distanti anni luce da quello che penso e che sono.

L’orrore e le coincidenze. Mercoledì 7 gennaio a Parigi la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, viene sterminata (12 morti, 11 feriti) con feroce freddezza dai due fratelli Kouachi, per, secondo il loro delirante messaggio, vendicare Maometto che sarebbe stato offeso dalle vignette di Charlie. Quello stesso giorno usciva nelle librerie francesi, l’ultima opera di Michel Houellebecq, Sottomissione, nella quale si immagina che nel 2022 il partito dei Fratelli Musulmani, vinte le elezioni, islamizzava la Francia. Proprio al romanzo, Charlie Hebdo, nell’ultimo numero prima della strage aveva dedicato una recensione positiva e la copertina, in cui Houellebecq profetizzava che nel 2022 avrebbe fatto Ramadan. Dopo il sanguinoso attentato, lo scrittore è stato posto sotto protezione della polizia, ha sospeso il tour promozionale del libro e i locali di Flammarion, casa editrice del romanzo, sono stati posti sotto stretta sorveglianza.

Charlie Hebdo

Epoché necessaria. Per giorni interi i media di tutto il mondo hanno presentato cronache, analisi, filmati dei tragici eventi parigini. E anche ritratti di Houellebecq: provocatore, nichilista, tranchant e rude nei giudizi (un po’ come le vignette di Charlie), magari non islamofobo (è stato assolto da questa accusa in un processo) ma certo a lui i musulmani non piacciono (del resto allo scrittore francese non piace proprio nessuno, come si capisce da Sottomissione). Incuriosita dalla fama ‘maledetta’ dello scrittore e dalle tragiche incredibili coincidenze, ho comprato il libro di Michel Houellebecq, cosa che non avrei mai pensato. Prima di iniziare la lettura mi sono promessa di fare, si parva licet componere magnis, epoché (sospendere il giudizio), come il filosofo Edmund Husserl saggiamente consiglia, da tutto ciò che circonda l’autore ed il caso generato dal suo ultimo romanzo. Difficile riuscirci, visto che proprio quelle circostanze mi hanno portato a Sottomissione. Ma il testo merita rispetto in sé, mi sono detta, e così ho cercato di procedere nella pura lettura. Cosa non facile. Non di certo per la scrittura, piuttosto per il mix di misoginia e misantropia dilagante che trasuda da ogni riga. Mi sono fatta un po’ di violenza per portare a termine l’impresa ma alla fine ce l’ho fatta. Il disagio che ho provato leggendolo è stato una novità assoluta ma forse è stata una esperienza, in ultima analisi, non del tutto negativa. Sono arrivata alla conclusione che non voler leggere Sottomissione a priori sia un errore: provoca reazioni spesso non piacevoli, di rifiuto, ma può essere utile, perché contiene elementi di cui dovremmo tener conto.

Fantapolitica e sarcasmo. Nel romanzo, la chiave fantapolitica sembra essere un pretesto per una critica al vetriolo al mondo accademico e politico francese, pronto a qualsivoglia girotondo per conquistare o mantenere il potere, condita da abbondanti dosi di nichilismo e di un generalizzato sarcasmo. Emblematica è, a questo proposito, la descrizione di Bayrou (uomo politico che fa l’accordo con Ben Abbes, capo della Fratellanza Musulmana: in caso di vittoria gli verrà assegnato l’incarico di primo ministro) che fa Tanneur, amico del protagonista/narratore: «La cosa straordinaria di Bayrou, quella che lo rende insostituibile è che è perfettamente stupido, il suo progetto politico si è sempre limitato al personale desiderio di accedere con qualsiasi mezzo alla cosiddetta ‘carica suprema’; non ha mai avuto, e nemmeno finto di avere, la minima idea personale – cosa molto rara di questi tempi. Questo lo rende l’uomo politico ideale per incarnare la nozione di umanesimo, tanto più che si crede Enrico IV e si spaccia per grande pacificatore del dialogo interreligioso; tra l’altro gode di una certa popolarità nell’elettorato cattolico, che si sente rassicurato dalla sua idiozia. È esattamente quello di cui ha bisogno Ben Abbes, che innanzitutto desidera incarnare un nuovo umanesimo, presentare l’islam come forma compiuta di un umanesimo inedito, unificatore, e che d’altronde è perfettamente sincero quando proclama il suo rispetto per le tre religioni del Libro» (p. 131). È un ritratto che si potrebbe adattare a qualche politico italiano, non vi pare?

Normalità e solitudine.  C’è poi l’ossessionante richiamo alla normalità assoluta che ritorna in tutto il romanzo incarnata in vari personaggi che in definitiva rispecchiano François, il protagonista narratore, un professore universitario che ha rapporti sessuali con le sue alunne, puri strumenti dei suoi sfoghi sessuali. Quando si instaura il regime islamico e viene rimosso dal suo incarico in università, si intrattiene con escort scelte sul web. Il rapporto che François ha con l’universo femminile, lo porterà ad esprimersi in questo modo su Sylvia, la compagna del padre: «Non sarei mai riuscito a capire le donne, me ne rendevo conto sempre più chiaramente. Sylvia era una donna normale, di una normalità quasi esagerata; eppure era riuscita a trovare qualcosa in mio padre; qualcosa che né mia madre né io avevamo notato. E non potevo credere che fosse soltanto, e neanche soprattutto, una questione di denaro;  lei stessa doveva avere uno stipendio elevato, si vedeva dall’abbigliamento, dalla pettinatura, dal modo di parlare. In quell’uomo anziano e ordinario aveva saputo trovare, per prima, qualcosa da amare» (p. 166). Non stupisce, allora, che alla normalità assoluta faccia eco una assoluta solitudine che raggiunge l’apice nell’assenza di rapporto con e tra i suoi genitori: «Il municipio di Nevers mi porgeva le più sentite condoglianze per la morte di mia madre, e mi informava che la salma era stata trasportata all’Istituto medico-legale cittadino, con il quale dovevo mettermi in contatto per prendere i provvedimenti necessari; la lettera era datata martedì 31 maggio. Vagliai rapidamente il mucchio: c’era una lettera di sollecito il 14 giugno, un’altra il 28. Infine, l’11 luglio, il municipio di Nevers mi informava che, conformemente all’articolo L 2223-27 del Codice generale degli enti locali, il Comune si era fatto carico dell’inumazione di mia madre nel settore delle tombe comuni del cimitero cittadino. Avevo un termine di cinque anni per ordinare l’esumazione della salma al fine di una sepoltura personale; alla scadenza del suddetto termine, la salma sarebbe stata cremata e le ceneri disperse in un giardino della memoria. Non immaginavo certo mia madre impegnata in una vita sociale intensa, spettatrice di conferenze su civiltà precolombiane o in giro per le chiese romaniche del Nivernese in compagnia di altre donne della sua età; ma non mi aspettavo neanche una solitudine così totale. Probabilmente anche mio padre era stato contattato e doveva aver lasciato senza risposta le lettere» (p. 150). E ancora, quando a pagina 157 si legge: «Non avevo amici, certo, ma ne avevo mai avuti? E a cosa servivano, a pensarci bene, gli amici?». La misantropia di François è del resto dichiarata: «Non provavo alcuna soddisfazione nel ritrovarmi in mezzo ai miei simili» (p. 188).

Umanesimo ateo e conversione. Non era l’unico a provare questa estraniazione. Il narratore cita le teorie del giovane sociologo Daniel Da Silva, il quale: «sosteneva che il legame familiare, in particolare il legame padre-figlio, non poteva in alcun caso essere fondato sull’amore, bensì sulla trasmissione di una conoscenza e di un patrimonio. Secondo lui, il passaggio al lavoro salariale generalizzato avrebbe necessariamente provocato l’esplosione della famiglia e l’atomizzazione completa della società, che sarebbe riuscita a rifondarsi solo quando il modello di produzione normale fosse tornato a basarsi sull’impresa individuale» (pp. 174-175). Per una persona come François quanto sarebbe stato difficile convertirsi alla religione islamica, sottomettendosi così al neonato regime politico instauratosi in Francia? Pochissimo, anzi avrebbe quasi voluto dire assomigliare molto a sé stesso, a quello che già era. Un debole, preda costante dei mostri che abitano il suo animo. Un mediocre nella vita con nessuna voglia di migliorare ed emanciparsi. Un frustrato ed un inetto in cerca di una precisa direzione per la sua vita che procede senza emozioni. Una persona di una noia mortale, senza alcuna idea da difendere o ideale per cui combattere. Non era di certo un umanista ateo, come afferma Rediger (Rettore dell’Università della Sorbona che vuole convincere il protagonista al convertirsi e riprendere il suo posto di professore): «Gli unici veri atei che abbia conosciuto sono dei ribelli; anziché limitarsi a constatare freddamente la non-esistenza di Dio, quell’esistenza la rifiutavano, alla maniera di Bakunin ‘E anche se Dio esistesse, bisognerebbe disfarsene…’ insomma erano degli atei alla Kirilov, rifiutavano Dio perché al suo posto volevano mettere l’uomo, erano umanisti, si facevano un alto concetto della libertà umana, della dignità umana. Immagino che non si riconosca neanche in questo ritratto, vero?» (pp. 212-213). Rinunciare alla sua (inesistente) libertà e autonomia per François avrebbe voluto dire semplicemente avere una cosa in meno di cui preoccuparsi. Così, l’uso dei tempi al condizionale nella conclusione, non lascia dubbi: «Un po’ com’era successo, anni prima, a mio padre, avrei avuto una nuova opportunità; e sarebbe stata l’opportunità di una seconda vita, senza molto nesso con la precedente. Non avrei avuto niente da rimpiangere» (p. 252).

Cinismo e rassegnazione. Terminata la lettura, fatta epoché dei tanti momenti urticanti, si ha la sensazione che nel libro si respiri una atmosfera di profonda stanchezza e di estremo cinismo. La svolta politica lascia indifferenti anche gli intellettuali progressisti e repubblicani, che abbandonano il loro laicismo per adeguarsi o ritirarsi silenziosamente a vita privata. Sottomissione è allarmante perché la futura Francia islamica non suscita opposizioni, anzi è vista come rassicurante. L’apertura di un nuovo ciclo storico supererebbe i ‘difetti’ di quello attuale: ossessione per la competizione sociale e sessuale, il nichilismo, il materialismo. Il futuro islamico sembra più razionale, almeno ai personaggi di Houellebecq. Già, ma guardiamoci intorno: quanti professori universitari, politici, intellettuali come quelli descritti in Sottomissione ci sono tra noi? Quanti individui atomizzati, solitari, che si lasciano vivere senza obiettivi e speranze conosciamo? La nostra civiltà è destinata a declinare nella totale indifferenza? Domande alle quali è difficile rispondere. Perché, certo, dobbiamo difenderci con l’intelligence e anche con le armi dalle minacce del terrorismo cosiddetto islamico (che non hanno nulla a che fare con il Corano). Ma il problema è più profondo, se molti ragazzi europei vanno ad arruolarsi tra i tagliagole dell’Isis, è un problema culturale e di valori, difficile da affrontare e che richiede – ahimè – tempi lunghi per una possibile soluzione. Sarebbe comunque il caso (lasciando per un attimo da parte la crescita che non arriva, il calo dei consumi, le correnti nei partiti, la Rai, le troppe riforme di cui si discute da decenni) di occuparsene il più presto possibile, o no?

TAG: charlie hebdo, Francia, Houellebecq, società, sottomissione
CAT: Letteratura

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